Bizzarro il destino di Frederik de Klerk, morto ieri a Città del Capo stroncato a 85 anni da un tumore. In molti lo hanno paragonato a Gorbaciov, il maldestro regista del crollo sovietico, e come lui è stato apprezzato all'estero ma dimenticato (o peggio) in patria. Per la maggioranza nera de Klerk era ormai solo un residuo del passato mentre per gran parte degli afrikaner (i sudafricani d'origine olandese) l'ultimo presidente bianco rimaneva un pasticcione o, addirittura, un traditore. Punto. A rimpiangerlo sono in pochi, forse i non molti bianchi progressisti, per lo più anglofoni, e magari i circoli religiosi già vicini all'arcivescovo Desmond Tutu, uno dei protagonisti della transizione.
Resta il fatto, che al di là delle polemiche e dei rancori, senza di lui il Sud Africa non sarebbe ciò che è oggi e, assai probabilmente, anche lo straordinario percorso di Nelson Mandela si sarebbe interrotto in qualche lurida cella. Insomma, fu proprio questo fervente calvinista, nato nel 1936 a Johannesburg in una famiglia di notabili afrikaner e già promessa del National Party, il partito dell'apartheid più intransigente, ad evitare un bagno di sangue inter-etnico e aprire un'inattesa e inedita fase politica nel segno del superamento e della riconciliazione.
Si trattò di un processo complesso iniziato nel 1986 quando de Klerk, allora giovane ministro della Pubblica Istruzione, e sino allora considerato capofila dei falchi del NP, iniziò a riflettere sull'insostenibilità dello stato d'emergenza e sulla necessità di un programma cautamente riformista. Tre anni dopo, dopo aver conquistato la leadership del partito, costrinse il presidente Pieter Williem Botha a dimettersi e il 20 settembre 1989 fu eletto al suo posto. Nel suo discorso d'insediamento il nuovo Capo dello Stato sorprese gli astanti tratteggiando «un nuovo Sud Africa senza dominatori e oppressi, è tempo di passare dalle parole ai fatti per ridare al nostro Paese fierezza e dignità e uscire dal marasma dell'isolamento internazionale e del declino economico». L'inizio della svolta.
Approfittando dell'evaporarsi della guerra fredda, il 2 febbraio 1990 de Klerk annunciava al Parlamento la legalizzazione dei partiti neri (l'African National Congress e il partito comunista) e qualche giorno dopo diede ordine di scarcerare gli oppositori. Tra tutti Mandela, rinchiuso da 27 anni.
La ruota della storia iniziò a girare sempre più velocemente. Nel giugno 1991 l'apartheid fu ufficialmente abrogato e negli otto mesi successivi tutte le leggi discriminatorie vennero cancellate. Il 17 marzo 1992, il 69 per cento dell'elettorato bianco approvò il referendum sulle riforme voluto dal presidente. La via per un Sud Africa pienamente democratico era definitivamente aperta e nel 1993 de Klerk e Mandela ricevettero il Premio Nobel per la Pace. Infine, dopo laboriosi negoziati con l'ANC e la negoziazione di Desmon Tutu, venne promulgata una costituzione provvisoria e il 27 aprile 1994 si ebbero le prime elezioni multirazziali. Mandela, come previsto, divenne il primo presidente di colore.
Svoltata la pagina della segregazione e avviato un processo di riconciliazione, de Klerk cercò di salvaguardare gli interessi della minoranza bianca e accettò il posto di vice presidente. Una breve illusione. Nel 1996 il NP uscì dal governo d'unità nazionale, l'anno dopo de Klerk annunciò il suo ritiro dalla politica per poi, nel 2004, tentare un rientro su posizioni progressiste. Un errore.
Abbandonato dall'elettorato, l'uomo, ormai isolato, si dedicò alla sua fondazione a cui affidò il suo il suo ultimo messaggio video diffuso dopo l'annuncio della morte. «Non posso dimenticare i danni e le ferite che l'apartheid ha causato ai cittadini di colore. Mi scuso con tutti». Il resto è silenzio.
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