No, non è andato tutto bene. A un anno esatto da quando il virus Sars-CoV-2 ha fatto la sua prima apparizione in Cina, non è più tempo di slogan né di falsh mob canori. La speranza ha lasciato spazio a rabbia e sconforto. Se nel Paese del Dragone, e persino a Wuhan, epicentro della pandemia, la gente sembra esser tornata alla normalità, qui in Italia si continua a navigare a vista.
Il primo caso di positività accertato, quello di Mattia Maestri, un 38 enne della provincia di Lodi, risale allo scorso 20 febbraio. Cosa è stato fatto in questo dieci mesi? Davanti alle limitazioni crescenti e alla prospettiva di una nuova stretta, è necessario riavvolgere il nastro della storia recente, per capire e analizzare la catena di errori che ci ha condotto si qui. Lo spunto è offerto da un testo, “Il libro nero del Coronavirus” scritto a quattro mani da Andrea Indini e Giuseppe De Lorenzo. Un libro inchiesta presentato oggi assieme al senatore di Fratelli d’Italia Giovanbattista Fazzolari e a Nicola Porro, vicedirettore del Giornale e direttore del sito nicolaporro.it. “Quando abbiamo studiato tutto il materiale raccolto – ricorda Indini – ci siamo subito resi conto che avevamo davanti un libro nero, una serie di errori grossolani che tutto il Paese sta pagando e continuerà a pagare per i prossimi anni”. Il volume ripercorre l’escalation del virus attraverso interviste e documenti inediti. A partire proprio dal suo esordio.
È il 31 dicembre 2019 quando vengono resi noti i primi casi di “polmonite di origine sconosciuta” tra i frequentatori del mercato del pesce di Wuhan. Secondo uno studio realizzato dalla Harvard Medical School, però, il virus avrebbe iniziato la sua corsa almeno un paio di mesi prima. Usando tecniche simili a quelle impiegate dai servizi segreti per analizzare le immagini satellitari, i ricercatori hanno notato “il drammatico aumento del traffico fuori dai cinque ospedali di Wuhan a partire dalla fine dell’estate e dall’inizio dell’autunno 2019”. Poi c’è il caso del sospetto focolaio ai Giochi mondiali militari che si sono tenuti dal 18 al 27 ottobre nello Hubei. Durante le competizioni cinque gli atleti vengono ricoverati “a causa di malattie infettive importate e trasmissibili”. Di cosa si è trattato? Non si sa. Di sicuro sappiamo che a quella gara hanno preso parte 10mila sportivi da tutto il mondo, Italia compresa.
Già, l’Italia. Le vie del virus sono infinite. Un’ipotesi suggestiva messa in campo dai due autori è che il virus sia passato dalla Germania. Il 19 gennaio una dipendente della Webasto Group, volata in Baviera per un meeting aziendale, infetta alcuni colleghi. Uno di loro potrebbe aver transitato dai paesini del Lodigiano? E pensare che all’epoca l’Organizzazione Mondiale della Sanità sconsigliava “l’applicazione di eventuali restrizioni di viaggio o commercio” e non raccomandava “misure sanitarie specifiche” per i viaggiatori. In quel di Ginevra si predicava ancora che “dalle indagini condotte dalle autorità cinesi, non emergono chiare evidenze di una trasmissione da uomo a uomo de virus”. Sbagliato.
Lo capiremo a nostre spese qualche settimana più tardi. È il 20 febbraio quando l’assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, dà notizia del primo contagio accertato a Codogno. Per un’amara ironia del destino, come ricorda De Lorenzo, il famoso “Piano di organizzazione della risposta dell’Italia in caso di epidemia” arriva sulla scrivania del ministro della Salute Roberto Speranza proprio quel giorno. “A gennaio il governo scopre di non avere un piano per gestire la crisi, così - racconta il giornalista - una task force del ministero della Salute ne abbozza uno, questa bozza arriva al ministro Speranza solo il 20 febbraio, lo stesso giorno in cui si scopre il primo contagio a Codogno, quindi quel piano lì diventa inutile”.
Nel frattempo il coronavirus ha già varcato i confini del Lodigiano e della Lombardia. “Le indagini sul focolaio di Codogno – rivela agli autori una fonte all’interno della task force della Lombardia – sin da subito hanno dimostrato che i casi si erano già propagati e che ormai erano arrivati troppo lontano”. È il 22 febbraio. Il governo italiano finalmente si muove, decidendo di “cinturare i luoghi più colpiti”. Dieci comuni della Lombardia e uno del Veneto (Vo’ Euganeo) diventano zone rosse. Non basta. Non rimane che blindare l’intera Penisola.
Durante il lockdown l’economia italiana subisce una contrazione senza precedenti: - 12,4 per cento nel secondo trimestre del 2020. Secondo l’Istat si tratta del “valore più basso dal primo trimestre 1995, periodo di inizio dell’attuale serie storica”. Il Paese si tiene a galla indebitandosi. Dall’inizio della pandemia ad oggi sono state varate ben quattro richieste di scostamento di bilancio. L’ultima neppure un mese fa. Porro sull’argomento è tranchant: “Avremo risorse per pagare questo debito? Penso che le generazioni più anziane stiano solo comprando tempo, invece bisogna imparare a convivere con il virus perché il rischio zero è un’utopia”.
È d’accordo anche Fazzolari. “Come si può alimentare il debito pubblico e continuare a frenare l’economia?”, si domanda il parlamentare. “Se le imprese chiudono che succede? Lo Stato – ricorda Fazzolari – non crea ricchezza, ma gestisce quella di chi la produce, tra monopattini elettrici e banchi a rotelle sono stati bruciati più di 100 miliardi, senza tutelare le imprese e creare un volano per l’economia”. Un discorso quanto mai attuale, adesso che all’aria del Natale si mescola quella di un imminente lockdown.
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