I contagi fuori controllo, gli ospedali sempre più in affanno, i primi morti e un'emergenza che nessuno sapeva come affrontare. Con la Lombardia, travolta prima di altre regioni dall'epidemia, dove la mancanza di preparazione nel primo periodo si è sentita più che altrove. «Sono mancati dei protocolli collaudati, quello non era il momento di decidere le strategie ma di applicarle», dice Silvano Donadoni, sindaco di Ambivere, nella bergamasca, che ha vissuto giorno per giorno il dramma della pandemia anche come medico di base. E che ricorda bene la prima riunione convocata d'urgenza con tutti i sindaci della provincia, il 23 febbraio 2020, quando si ritrovarono in 250 in un centro congressi, tutti stipati, lui solo con la mascherina. «Mi stupii. Ho pensato se qui uno è contagiato, buona parte di noi porta a casa il Covid. Io ero l'unico con la protezione e un dirigente dell'Ats mi prese in giro, cosa ci fai con la mascherina?».
All'iniziale sottostima del rischio è dedicata buona parte della relazione di Andrea Crisanti, oggi al centro dell'inchiesta per epidemia colposa della Procura di Bergamo, dalla quale emerge che i sindaci della Val Seriana - che avrebbe potuto istituire tempestivamente la zona rossa ad Alzano e Nembro - avessero ricevuto istruzioni di non prendere iniziative personali. I primi cittadini avrebbero preferito allinearsi alle indicazioni delle autorità sanitarie e politiche della Regione Lombardia, rassicurando le proprie comunità invece di prendere decisioni che avrebbero bloccato il contagio. In Val Seriana non fu come per la zona rossa di Codogno, dove ci fu unità di intenti tra l'autorità di governo regionale e nazionale. Dall'inchiesta di Bergamo emerge come verso la fine di febbraio i dati del contagio nella bergamasca erano tali che avrebbero richiesto ulteriori misure contenitive. Mentre la Regione, per la Procura, non ha mai formalmente richiesto o sollecitato al governo alcun provvedimento per Alzano e Nembro. Stando alle chat, l'assessore Gallera era contrario all'istituzione della zona rossa e avrebbe inoltre dato ordine alle Ats di non comunicare i dati dei positivi ai sindaci, impedendo di fatto loro di prendere provvedimenti. La relazione di Crisanti non salva nulla della gestione dell'emergenza nel nostro Paese. Anche se lo scienziato, oggi senatore Pd, ritiene che la sua perizia non sia un atto di accusa ma un «tentativo di restituire la verità agli italiani». E minaccia di querelare chi insinua che ci sia lui dietro alla fuga di notizie sull'inchiesta. Già il 12 febbraio, otto giorni prima della scoperta del primo caso a Codogno e con il virus che circolava da una settimana all'ospedale di Alzano, l'epidemiologo Stefano Merler, chiamato come consulente, spiegò in una riunione a cui partecipò Speranza che l'impatto sul sistema sanitario sarebbe stato devastante e che dovevano essere applicate «rigide misure». Fu lui, il 20 febbraio, a presentare il piano Covid poi ignorato. Tra l'altro già allora erano tutti consapevoli della difficoltà di reperire i Dpi e dunque della situazione di vulnerabilità in cui si trovava l'Italia e del rischio a cui avrebbero esposto la popolazione e gli operatori sanitari non prendendo iniziative idonee. Tanto che nei giorni successivi al 23 febbraio il personale sanitario dell'ospedale di Alzano fu autorizzato ad utilizzare le mascherine dei kit antincendio.
Di quanto fosse grave la situazione nei due comuni si parlò in una riunione del Cts del 2 marzo che non venne verbalizzata. C'erano anche Speranza e l'allora premier Conte che ai pm hanno invece raccontato di esserne venuti a conoscenza il 4 e il 5 marzo.
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