Carissimo G., mille e mille donne avrebbero voluto scriverti questa lettera, le ho sentite, ascoltate, viste, osservate e tutte desideravano risponderti, per riaverti e acciuffare di nuovo momenti di vita dolce. In verità una sola, fra mille e mille, ha il diritto di farlo, Rina che fu tua davvero e ancora esiste e resiste a quella passione. Ti scrivo da Lecce, davanti alla caserma Trizio che fu il luogo dei tuoi tormenti salentini, dove il tuo amore disperato e violento trovava sfogo quotidiano nello scritto, un foglio riempito di parole e di pensieri veloci, emozioni fulminee, alcune strazianti di un cuore duro e arido, come annotavi tu, spedendo quella lettera verso Bra e tutto quello che c'era dentro e attorno. Ma non era vero, perché il cuore tuo non era né duro, né arido, semmai portato a sciogliersi e a essere fertile e caldo come pochissimi. Con le donne e con gli amici, rari ma sentiti fortemente.
Era Spagna, era Vigo e tu, tramortito dal trigemino, mordendo un bocchino di madreperla, mi parlavi di femmine andaluse, di occhi belli e lunghi capelli che avrebbero dovuto chiamarti, come scrivesti ancora a Rina. Parlavi guardando l'orizzonte, come a ricercare un profilo, il disegno di un volto, di un corpo che era fuggito o ti era sfuggito. Narravi storie e amori, come nessun altro ha saputo fare, parole poche a rendere un'atmosfera lontanissima e di colpo presente, quasi fossero apparse al nostro fianco, quelle femmine, con le loro curve, i loro seni, le loro labbra.
La terra di Lecce non è più arida dura ma conserva, come scrivevi, il sapore secco come la pelle di una vecchia, piena di rughe e di durezze sofistiche come un pensionato. Non ci sono più i ragazzini che ti dicono dove sono le case proibite. Lecce si è fatta bella di colpo, faresti fatica a riconoscerla, come la caserma Trizio nelle cui stanze non più fiammiferi spenti e lampadine biancastre da far fuori con un lancio di scarponi. Eppure c'è quasi un senso di vuoto, come il silenzio che, improvviso, seguiva quei tuoi racconti e memorie nella canicola di Vigo e di Madrid. Mi dicesti che amare una donna è un'impresa che spetta a pochissimi uomini, il resto è lavoro, abitudine fessa, sfiancante, pure noiosa. Non ci credevi fino in fondo ma questa volta non guardavi più l'orizzonte ma fissavi i miei occhi, con un mezzo ghigno che poi esplodeva in una risata complice. Soltanto un innamorato pazzo o un pazzo perduto nell'amore avrebbe potuto scrivere, ogni giorno, ogni possibile spazio di tempo, una, dieci, cento e sempre lettere, come tu hai fatto, dedicando una fetta della tua vita a chi desideravi prima e avuto dopo. Non l'hai tradita con Marilyn Monroe ma con donne ottocentesche e belle, secondo tua stessa confessione, un buon alibi per farla franca e poi ritornare nella culla. G, oggi avresti gli anni di mia madre ma te ne sei andato prima che la vita potesse avere tutto il proprio senso.
La tua voce era ormai come il silenzio delle notti salentine, un lontano mormorio di parole, al telefono sentii freddo alla schiena ascoltando il tuo rimprovero: «A't vén mai a trovéme». Mille e mille donne avrebbero desiderato venirti a trovare. Rina, il tuo vermuth prima del pranzo e il cuscino di piume dove dormire, morire, riposare, svegliarsi, ha saputo e potuto farlo.
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