Per Draghi la minaccia di Quota 100

La misura scade a fine anno. L'Europa chiede lo stop ma i sindacati vogliono il bis

Per Draghi la minaccia di Quota 100

È «essenziale» che gli Stati utilizzino gli aiuti del Recovery Fund «per veicolare fondi verso una spesa produttiva fortemente necessaria, attuando al contempo riforme a sostegno della produttività». La Bce nel bollettino mensile, pubblicato ieri, ribadisce un concetto che per l'esecutivo di Mario Draghi dovrebbe rappresentare una sorta di stella polare. L'attitudine agli investimenti produttivi, quelli che Draghi definisce «debito buono», secondo l'Eurotower «consentirebbe al programma Next Generation Eu di contribuire a una ripresa più rapida, solida e uniforme e accrescerebbe la capacità di tenuta economica e il potenziale di crescita degli Stati membri».

Ne consegue che, oltre alla riscrittura quasi integrale del Piano nazionale di ripresa e resilienza, il premier incaricato dovrebbe concentrarsi anche sul capitolo previdenziale, proprio alla luce delle indicazioni di Madame Lagarde & C. Insomma, il premier incaricato è chiamato anche a sciogliere il nodo di «Quota 100» che l'Europa, in generale, considera molto negativamente in quanto costituisce un aggravio della spesa anticipando l'uscita dal lavoro dei cittadini con conseguenti gravami sui conti pubblici. Non sarebbe una difficoltà se si considera che il provvedimento scade il 31 dicembre di quest'anno, ma la questione è soprattutto politica in quanto Lega, sindacati e buona parte dei partiti di centrosinistra ritiene indispensabile emanare un nuovo provvedimento che eviti la creazione di uno «scalone pensionistico» dal primo gennaio del 2022 quando resterà in vigore la sola legge Fornero che prevede la possibilità di uscire dal lavoro solo a chi ha raggiunto i 67 anni di età con 35 anni di contributi.

Per un economista come l'ex governatore di Bankitalia è impossibile non guardare i dati forniti dalla Ragioneria generale dello stato secondo cui nel 2020 dovrebbe essere stato raggiunto un picco della spesa per pensioni pari al 17% del Pil, nuovo record storico, mentre il parametro dovrebbe tenersi al di sopra del 16% fino al 2050, decennio nel quale i baby boomers, cioè i nati negli anni '60 dovrebbero «pesare» meno. La Commissione europea aveva prodotto previsioni più pessimistiche già prima del diffondersi del virus.

Come detto, le stime sono state scardinate dalla caduta del Pil causata dalla crisi pandemica e così, se prima del Covid-19, era lecito attendersi che dal 2030 la situazione sarebbe migliorata con il raggiungimento dell'acme e una progressiva discesa, adesso è molto probabile che il capitolo pensioni inciderà sulla spesa pubblica anche per il prossimo trentennio. È sufficiente attenersi alle indicazioni che dell'Ufficio parlamentare di Bilancio che ha rivisto le stime sulla crescita del Pil al 4,3% nel 2021 (quasi due punti percentuali in meno) e al 3,7% nel 2022 (circa un punto in più delle attese ma al di sotto dei valori prepandemici per circa 1,4 punti percentuali).

Draghi dovrà pertanto resistere alle argomentazioni sostenute soprattutto dal sindacato, Cgil in primis (ma Cisl e Uil concordano sul punto), in base alle quali si dovrebbero utilizzare per i pensionamenti anticipati i risparmi di bilancio sugli stanziamenti effettuati per Quota 100: su 21 miliardi circa disponibili su base triennale dovrebbero essere rimasti in cassa circa 7 miliardi che potrebbero essere

impiegati per altre forme di flessibilità come Ape social, Opzione donna et similia. Il rischio di una frattura con le parti sociali ancor prima di iniziare la navigazione dell'esecutivo non è, perciò, un'ipotesi peregrina.

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