Ecco perché il Parlamento deve restare aperto

Tornare in Parlamento. Questa l'unica strada da percorrere, senza più indugi. Lo stanno chiedendo con appelli pubblici i leader dell'opposizione Salvini, Meloni e Berlusconi, ma anche esponenti della maggioranza come Renzi

Ecco perché il Parlamento deve restare aperto

Tornare in Parlamento. Questa l'unica strada da percorrere, senza più indugi. Lo stanno chiedendo con appelli pubblici i leader dell'opposizione Salvini, Meloni e Berlusconi, ma anche esponenti della maggioranza come Renzi. Ma, soprattutto, lo chiedono gli italiani. Il messaggio è chiaro: che il Parlamento riprenda un ruolo che possa essere degno di questo nome. Con le dovute tutele e i dovuti accorgimenti, cui stanno sottoponendosi, con alto senso di responsabilità, tutti coloro - e sono ancora milioni - che continuano a lavorare affinché il «Sistema Italia» non collassi. Ma, soprattutto, sembra arrivato il momento che il governo vada in Parlamento a riferire. C'è un refrain, invero un po' retorico, che piace molto: «Non è l'ora di fare polemiche...»

Certo, nel baratro sanitario ed economico in cui il nostro Paese è sprofondato, ogni polemica appare oggi un fuor d'opera. Giusto invocare un atto di responsabilità collettiva per un unico obiettivo, che è quello di uscire dall'emergenza. Ma neppure si può azzerare il ruolo del Parlamento e imbavagliare ogni diritto di critica e di dissenso sull'azione dell'esecutivo. Anzi, è proprio di fronte a un'emergenza, che in un sistema democratico le Camere devono poter svolgere al meglio, e anzi con maggior vigore di sempre, la loro funzione di controllo politico. Quasi in sede permanente e non come accade oggi - se va bene - a ranghi ridottissimi.

Un dibattito-confronto tra maggioranza e opposizione non deve avvenire, di certo, in prima istanza, sui social, ma nelle sedi istituzionali a ciò deputate. Perché nel diritto la forma è anche sostanza. Se non immediatamente impedito, questo vulnus, soprattutto in una situazione di emergenza e di misure eccezionali come quelle in corso, potrebbe avere conseguenze inquietanti per la tenuta e le prospettive della nostra democrazia. E questo perché il sistema costituzionale è fatto di un delicato meccanismo di bilanciamento tra poteri: le pouvoir arrête le pouvoir - il potere arresta il potere - sosteneva Montesquieu. Solo così si può evitare l'arbitrio di un potere sull'altro. Ma se in un sistema democratico si altera il meccanismo dei checks and balances perché il Parlamento si è, praticamente, autosospeso, cosa succede?

La previsione di situazioni di emergenza è contemplata nella materia costituzionale. Ciò che caratterizza e accomuna le situazioni di emergenzialità, nella loro variegata tipologia, è la loro attitudine a porre una peculiare «domanda di governo». A richiedere cioè che all'eccezionalità dell'evento corrisponda una altrettanta «capacità di governo», e quindi di intervento delle istituzioni, graduata in base alla gravità della situazione. Negli ordinamenti costituzionali avviene comunemente che negli stati di emergenza si accentuino i poteri dell'esecutivo, in quanto organo che risulta il più attrezzato, per capacità decisionale e disponibilità di mezzi, a fronteggiare la situazione di crisi.

Ma tale gestione non è mai a senso unico, perché a fianco del governo ci sono le assemblee rappresentative, espressione del popolo sovrano. In Spagna, la disciplina degli stati di emergenza è collocata, non casualmente, nella parte della Costituzione dedicata alle relazioni tra il governo e il Parlamento, proprio per marcare il ruolo di quest'ultimo nelle situazioni di crisi.

Non solo. Tale relazione tra governo e Parlamento diviene tanto più stretta quanto più l'emergenza non abbia carattere di temporaneità, ma sia destinata a protrarsi nel tempo.

In Italia i Costituenti esclusero una specifica disciplina dell'emergenza scelta che, col senno di poi, si è rivelata improvvida lasciando ai decreti legge del governo, da adottarsi «in casi straordinari di necessità e urgenza», la regolazione di ogni emergenza possibile, senza tipizzazione di fattispecie. Ma l'ampia discrezionalità concessa al governo con lo strumento del decreto legge è temperata da alcune importanti garanzie costituzionali: la verifica preventiva del capo dello Stato in sede di emanazione del decreto legge, il ruolo del Parlamento in sede di conversione in legge e la Corte costituzionale nell'eventuale sindacato di legittimità. A fronte della presente crisi, il governo ha, invece, inteso prescindere dalle suddette garanzie costituzionali. Da settimane si sta procedendo, perlopiù, con decreti del presidente del Consiglio dei ministri, che non contemplano, per loro natura, nessuna delle suddette garanzie. Non è, di sicuro, la migliore terapia da somministrare ad un Paese in ginocchio.

E, a maggior ragione, quando con tali decreti si limitano diritti fondamentalissimi, come la libertà personale o quella di circolazione che la Costituzione riserva, non a caso, alla legge del Parlamento. Ad oggi a quest'ultimo non è stato dato il diritto di discutere, né la forma né la sostanza, dei provvedimenti governativi. Qualche interrogativo ce lo dobbiamo porre. E agire. Non domani. Adesso.

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