Ecco sei domande al premier che dimostrano il fallimento

Il reddito è sotto a quello del 2007, il Pil negativo nonostante gli aiuti Bce e il petrolio in calo, la disoccupazione da record, famiglie e imprese senza liquidità. Renzi spieghi

Ecco sei domande al premier che dimostrano il fallimento

di B reve storia (recente) del Pd al governo dell'Italia. Partiamo dalle elezioni del febbraio 2013, vinte dal centrosinistra per uno 0,37% sul centrodestra. Da qui nasce l'egemonia, grazie a un premio di maggioranza dichiarato incostituzionale con la sentenza della Corte del 13 gennaio 2014. È solo grazie a questo che il Pd finisce con l'avere uno strapotere, sulla base di un consenso inesistente, ma gonfiato come il dirigibile Zeppelin. Dopo le elezioni, e con il malloppo di più di 130 deputati, il Pd cerca la strada temeraria dell'accordo di governo con i grillini, facendo una figura oscena, e distruggendo la possibilità di una grande coalizione. Bruciato Pier Luigi Bersani, si apre la prospettiva di un percorso salubre. Con tre contenuti inseparabili; pacificazione, come fiducia e stima reciproca, e come condizione per gli altri due: riforme e rilancio dell'economia. Ed è su questa base che viene eletto, cosa straordinaria, per un secondo settennato, Giorgio Napolitano. Ma Napolitano, Pd ed Enrico Letta, nei mesi successivi, distruggono il basamento di una qualsiasi coesione con il concorso della magistratura politicizzata, dichiarando il game over per Berlusconi e sostituendosi al popolo sovrano.

Chi è venuto dopo, Matteo Renzi, propone un metodo promettente per raggiungere la pacificazione e intraprendere percorsi di collaborazione. Promesse, finora, in gran parte mancate. Ha imbottigliato il Parlamento nella discussione faticosa di due riforme sempre più incomprensibili (legge elettorale, bicameralismo paritario e titolo V), esibendo sul resto una povertà di competenze e un verbalismo degno di miglior causa, in paragone ai risultati.

In politica estera? Zero al quadrato. Renzi-Mogherini-Gentiloni non spostano di un solo millimetro le posizioni europee. In economia? I dati continuano a essere disastrosi e costringerebbero alle dimissioni per confessata incompetenza qualsiasi governo. C'era la possibilità di un'applicazione della delega fiscale rivoluzionaria, approvata in via definitiva dal Parlamento un anno fa. I primi risultati, molto modesti, sono stati congelati per la sindrome antiberlusconiana. E sul Jobs Act, quello delle tanto strombazzate tutele crescenti? Doveva essere applicato sia pure asfittico e minimalista il 1° gennaio. Invece niente.

Proprio sui temi dell'economia poniamo sei domande al presidente del Consiglio.

  1. Ci sarà una ragione se l'Italia è tra gli ultimi Paesi dell'Eurozona e non ha ancora recuperato i livelli di reddito del 2007? Traguardo realizzato in Francia e Germania. Grecia esclusa, solo il nostro Paese vive ancora i traumi peggiori di quella terribile avventura. Con un gap che è pari al 9% del reddito prodotto. La Grecia va peggio, ma almeno lì c'è una reazione, determinata dal rifiuto di una politica di mero rigore e di austerità.
  2. Ci sarà una ragione se il tasso di disoccupazione italiana oggi si colloca 2 punti sopra la media dell'Eurozona? Un dramma nazionale (3 milioni e 457 mila persone) che colpisce soprattutto gli strati più deboli.
  3. Ci sarà una ragione se l'Italia è ancora tra i pochi Paesi dell'Eurozona che vedono il loro Pil continuare a diminuire? Nel terzo trimestre 2014, mentre tutti gli altri Stati mostravano un segno più, l'Italia perdeva ancora lo 0,1%. Superata in negativo solo dall'Austria e da Cipro. E non era andata meglio nel 2013, quando la perdita era stata pari all'1,9%.
  4. Ci sarà una ragione se le banche italiane, per quanto teorizzate come tra le più solide nel contesto europeo, non riescono a finanziare in modo adeguato famiglie ed imprese, che cercano comunque di reagire a questo stato comatoso?
  5. Ci sarà una ragione se in Italia il comparto dell'edilizia continua a registrare perdite su perdite? Prezzi di mercato che continuano a cadere. Crollo delle contrattazioni. Eccesso di offerta sulla domanda, che non decolla a causa di un carico fiscale che ha prodotto un effetto di spiazzamento. I cittadini italiani preferiscono comprare titoli di Stato, a un tasso medio che supera di poco l'1%, piuttosto che imbarcarsi nell'avventura dell'immobiliare. Scelta razionale a causa degli oneri impropri. I vecchi vantaggi di un investimento che proteggeva dall'inflazione sono saltati. Nel frattempo la perdita di posti di lavoro nel comparto è stata quasi tre volte tanto rispetto all'industria: 283 mila unità, dal 2012 al terzo trimestre del 2014, contro 93 mila.
  6. Ci sarà una ragione se in Italia il controshock simmetrico (politica monetaria espansiva, bassi tassi d'interesse, caduta del prezzo del petrolio e svalutazione dell'euro nei confronti del dollaro) non riesce a produrre gli effetti sperati? Il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, aveva azzardato l'ipotesi di un impatto positivo sull'economia pari allo 0,5% del Pil. Subito smentito dall'Istat: il risultato sarà prossimo allo zero. Il che è paradossale, visti gli elevati costi energetici che ci penalizzano. Ma la ripresa non può essere affidata a semplici impulsi a bassa intensità. Per rimettere in moto l'economia ci vuole la politica. Un governo nella pienezza dei suoi poteri. Che non sia di «nomina regia» ma risultato di un mandato elettorale pieno. Se tutto questo non c'è, non resta altro che contare i cocci. E chiedersi sconsolati quali sono le ragioni dell'attuale fallimento. Non è un caso che i consensi del governo siano in crollo, come certificato da tutti i sondaggisti.

In sintesi: la sinistra che ha vinto le elezioni 2013 ha portato, con il velleitarismo di Bersani, il minimalismo di Enrico Letta e l'ipocrisia e l'opportunismo di Renzi, tenuti insieme dal paternalismo sovietico di Napolitano, l'Italia nel baratro della crisi più nera della storia: disoccupazione, deflazione e irrilevanza. L'Italia non è riuscita a uscire dalla crisi e dipende ancora dalle decisioni della Bce. Tutto questo mentre il Parlamento è bloccato in riforme istituzionali impossibili. Ne deriva la forte necessità di ricostruire il centrodestra per porre termine a questo susseguirsi di fallimenti, in una prospettiva che consenta al nostro Paese di fare le riforme necessarie per tornare a crescere, recuperare credibilità e restituire all'Italia un ruolo da protagonista in politica estera. Coesione nazionale su basi nuove o elezioni, ma non con il discutibile strumento che si sta votando al Senato (non ci crede neanche Renzi). Consegnerebbe l'Italia a un monopartitismo da Ddr con tanti partiti e senza un'unica opposizione.

Inoltre, con l'abrogazione del finanziamento pubblico e la demonizzazione e l'impraticabilità di un sostegno privato, e con la contemporanea inclusione delle preferenze e di una legge sul voto di scambio severissima, si finirebbe per consegnare alle procure gli esiti delle elezioni. Un risultato che è quanto di più lontano da una democrazia occidentale. Se in democrazia in Italia siamo ancora.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica