Alla fine Draghi ha fatto capitolare Conte e la resistenza grillina contro la riforma della giustizia.
Che verrà approvata con voto di fiducia (annunciato nel Consiglio dei ministri di ieri) nei prossimi giorni, con Draghi che ricorda che il testo è stato «approvato all'unanimità dall'ultimo Consiglio dei ministri», che è ora di «mettere un punto fermo» alla diatriba, e che la disponibilità di modifica del governo è limitata ad alcuni «accorgimenti tecnici», come spiega la ministra Cartabia, che riguardino quelle realtà («sette Corti d'Appello», dice la Guardasigilli) incapaci di adeguarsi: «Interverremo con strumenti ad hoc perché nessuno possa dire non sono in grado di completare un processo», dice Cartabia.
Concessioni minime, con l'obiettivo di «rendere il testo più condiviso possibile». E una foglia di fico offerta ai Cinque Stelle in tumulto: Draghi si è generosamente occupato di salvare la faccia a Conte, concedendo al medesimo di far trapelare la notizia di un «contatto telefonico» tra i due per informare il would-be leader di M5s dell'ultima offerta di mediazione del governo. Per il resto, il premier liquida con nettezza le accuse del fronte giustizialista («Nessuno vuole creare sacche di impunità») e scrolla ironicamente le spalle davanti alle elucubrazioni sul semestre bianco alle porte: «Non è con la minaccia del voto anticipato che si fa una riforma così complessa».
L'esame della riforma Cartabia è già slittato di una settimana: sarà in aula il 30 luglio prossimo, secondo quanto deciso ieri dalla conferenza dei capigruppo della Camera dei deputati. A puntare tutto sullo slittamento dei tempi, per tentare di affossare la «madre di tutte le riforme», sono i Cinque Stelle. Che a Montecitorio contano su due posizioni di potere dalle quali è possibile ostacolare in molti modi una riforma che cancella l'incivile Bonafede: la presidenza della Camera con Roberto Fico e la presidenza della Commissione giustizia di Mario Pierantoni. Il Pd di Enrico Letta ha tentato, in questi giorni, di intestarsi una mediazione che offrisse ai grillini e a Conte un appiglio formale per dire di aver modificato la riforma, e riallinearsi alla maggioranza. Con un obiettivo politico che serve innanzitutto ai dem: scongiurare una spaccatura di M5s nel voto della riforma, che darebbe un duro colpo all'aspirante leader Conte e che indebolirebbe fatalmente il progetto di alleanza tra i due partiti, e la loro forza contrattuale nella maggioranza. Ma la mediazione Pd è stata mandata a quel paese dai grillini, Bonafede in testa (e Conte a ruota): «Acqua calda, non ci basta». Per il Pd era impossibile spingersi oltre la proposta di norma transitoria che rinvii di poco l'entrata in vigore dei nuovi tempi dei processi, e così il pallino della trattativa è stato passato a Palazzo Chigi. «Il governo è disponibile a qualche correttivo minimo, per poi mettere la fiducia», notava ieri mattina Roberto Giachetti di Iv «A questo punto il Pd non può permettersi di dare ancora corda ai grillini. Se Draghi dice stop, il Pd non può che allinearsi. Altrimenti a esplodere sarebbero loro, prima ancora dei Cinque Stelle».
Lo si capisce dalle prese di posizione di alcuni dirigenti: «L'istinto difensivo contro ogni riforma è sbagliato. Il testo Cartabia è ragionevole e equilibrato, e la fiducia non è un problema», dice Piero Fassino. Quel che è chiaro è che, ieri, Draghi ha detto: «Stop».
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