«Il Pd rischia il declino», denuncia la minoranza riformista dem. «Serve con urgenza un rilancio politico e identitario che passi necessariamente per un congresso. La macchina sta sbandando, non possiamo continuare a schiacciarci dietro M5s facendoci scippare l'agenda Draghi da altri, mentre deve essere la nostra», dicono Lorenzo Guerini e Luca Lotti, leader di Base riformista, lanciando un ultimatum al segretario: o si fa un congresso vero in autunno, oppure sarà rottura.
L'attacco interno rovina la festa a Zingaretti, che ieri voleva lanciare in pompa magna la nuova alleanza nel Lazio da lui governato, con l'ingresso in maggioranza dei grillini: «Da qui costruiamo un modello possibile di nuovo centrosinistra allargato», annunciava fiero mentre quelli bombardavano il quartier generale. Mettendo sotto accusa proprio quella «subalternità» ai Cinque Stelle e a Giuseppe Conte che ha scaraventato, è la loro diagnosi, il Pd nel pantano in cui si trova ora, dopo aver subito da Renzi l'operazione politica che ha portato alla nascita del governo Draghi. Per poi subire subito dopo anche il voltafaccia del medesimo Conte (e di Beppe Grillo, che veniva considerato un amico fidato): per settimane il premier defenestrato si è fatto consolare e blandire da Bettini e Zingaretti: «Certo, sono stati cattivissimi a toglierti da Palazzo Chigi, ma ti restiamo noi, ti resta il centrosinistra, sarai il leader e il federatore della gloriosa alleanza con M5s, e il nostro candidato premier». Prospettiva lusinghiera, tanto che Conte aveva risposto che certo, «io ci sono», il Paese e il centrosinistra non dovranno fare a meno di lui. Poi però è arrivato Grillo, che aveva un'altra urgenza in testa: salvare la sua disastrata ditta. E gli ha fatto la controfferta: quella di prendere il prestigioso posto di Vito Crimi. L'avvocato del popolo si è fatto due conti: le elezioni saranno nel 2023, di qui ad allora - in attesa di fare il candidato premier - gli toccava tornare a fare esami all'università, col rischio che il popolo lo dimenticasse e le tv non lo invitassero più e che magari nel frattempo il Pd cambiasse leadership, con l'arrivo di qualcuno che a fargli fare il federatore non ci pensa punto. Meglio l'uovo oggi, si è detto. E ha cambiato cavallo. Il tutto accompagnato da sondaggi che, per quanto fantasiosi, indicano una direzione chiara: i voti del Pd, che per anni ha sviolinato Conte come «faro dei progressisti mondiali», finiscono in bocca al presunto faro, e quindi ai 5stelle. Quel 14% attribuito da Swg ai dem in presenza di un M5s a guida Conte, unito ai proclami populisti e alle rivendicazioni della bellezza del suo primo governo fatte da Giuseppi, ha provocato un terremoto psicologico e politico nei dem, che ora vede scappare da sé pure Leu, il micropartito di D'Alema e Speranza che ora si vuole imbarcare nel M5s contiano. Persino l'ex ministro Provenzano (sinistra zingarettiana) boccia il «nonsense» delle vanterie del premier sul Conte 1 e il suo «sano populismo». Mentre Enrico Borghi attacca: «Da Conte mi aspettavo una smentita o una correzione a quei virgolettati, invece niente.
E allora le rispondo, professor Conte, che il populismo sano del suo primo governo era quello che si genufletteva a Mosca, apriva le porte a Pechino, sosteneva Maduro, solidarizzava con i gilet gialli, lisciava il pelo al suprematismo trumpista. Fu un passaggio triste per i diritti e le libertà in Italia. E certo non prendiamo lezioni da chi si può fregiare dell'unico tentativo - per fortuna sventato - di privatizzare i servizi segreti».
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