Abbiamo lanciato una parola d'ordine agli italiani per il 1921: riguadagnare il tempo perduto, che, per il solo 1920, si compendia in questo pauroso totale: ventuno milioni di giornate di... vacanza!
Lavorare! Questo monito ha il torto di ricordare il famoso nonché nittiano... produrre. Ci limitiamo ad osservare che, già durante l'ultima fase della guerra, noi ci eravamo posti sul terreno produttivista e dal punto di vista nazionale e dal punto di vista sociale. Lavorare!, noi diciamo o ripetiamo oggi, non soltanto per ridotare la nazione e l'umanità dell'enorme, inverosimile quantità di ricchezze distrutte dalla guerra. Questo è un lato del problema. Certamente, non è trascurabile. In tempi, come gli attuali, di nera miseria, malgrado certe ostentazioni dell'alto e del basso e di spaventoso caro-viveri, che si producano o non si producano beni materiali, non è cosa che possa lasciare indifferenti gli uomini. I quali non vivono di solo pane, ma nemmeno di sole frasi, siano pure cantaridizzate dalla più smagliante rettorica.
Le cicale, si dice, vivono e muoiono del loro canto; gli uomini di carne e d'ossa, no. Del resto anche quelli che paiono avere in sommo dispregio le banali necessità della vita, alla prova dei fatti sono meno ascetici di quel che amino far credere.
Non è semplicemente per aumentare la quantità di beni materiali che noi incidiamo sulle nostre insegne la parola «lavorare!»; e non è soltanto in omaggio ai criteri della vecchia, rispettabile morale secondo la quale il lavoro nobilita e l'ozio, ecc., ecc. C'è una ragione più profonda, nella quale si riassume tutta l'esperienza e la lezione tragica della nostra guerra: bisogna lavorare, cari italiani, se volete essere liberi a casa vostra e nel mondo. Lavoro è uguale a libertà. Un popolo parassita non può sfuggire al suo destino, che è quello di essere ridotto nella più miserevole delle schiavitù.
L'equilibrio dell'Europa, qual è uscita mal combinata dalle radunate diplomatiche di Versailles, Trianon, Sèvres, Neuilly, Rapallo è instabilissimo. L'Europa non ha ancora ritrovato la sua pace. O la ritroverà, giungendo a creare la sua unità politica, economica, spirituale, il che le permetterà di non essere semplicemente il bottino da spartire fra i due continenti virtualmente già in guerra (America, e Giappone-Asia); o continuerà a vivere qualche decennio ancora nell'attuale stato d'incertezza, ottimo per la penetrazione commerciale americana e giapponese.
È lecito prevedere che fra qualche decennio i rapporti demografici fra le varie nazioni europee si saranno di nuovo profondamente alterati. Il mondo russo, ricacciato in piedi dall'americano Vanderlip e dal tedesco Stinnes, tornerà a gravitare, fatalmente e pesantemente, verso il Mediterraneo e l'Atlantico. L'enorme ondata del mondo slavo spazzerà via gli Stati periferici, come la Polonia, e si abbatterà, in un primo tempo, sulle pianure della Vistola. I settanta-ottanta milioni di tedeschi si metteranno allora di nuovo in movimento, «aspirati» dalla rarefazione della massa francese, il cui squilibrio fra territorio e popolazione - malgrado i premi di natalità - tende irresistibilmente ad aumentare. L'Inghilterra, che, nel frattempo, sarà stata bandita dall'oceano indiano e dal Mediterraneo, grazie alla sollevazione - già in atto - del mondo islamico, affiderà alla sua flotta navale e aerea la protezione estrema della sua libertà.
Nessun dubbio che la storia europea di domani sarà opera principale del mondo russo e del mondo germanico. E l'Italia? Dopo la Russia e dopo la Germania, l'Italia è il blocco nazionale più compatto ed omogeneo. Verso il 1950 potrà contare circa sessanta milioni di abitanti, quindici o venti dei quali diffusi sulle rive del Mediterraneo o nei paesi d'oltre Atlantico. Nessuno può mettere in dubbio la vitalità straripante della nostra razza. Ebbene, nel momento nuovamente topico e tragico della storia europea, quando gli infiniti nodi verranno fatalmente al pettine, noi, italiani, potremo o non potremo scegliere, potremo o non potremo fare una politica da nazione libera, a seconda della maggiore o minore libertà economica che ci saremo conquistati nell'intervallo di tempo.
Noi siamo oggi economicamente schiavi. Schiavi di chi ci dà il carbone; schiavi di chi ci dà il grano. Se verso il 1950 avremo ancora bisogno d'importare dall'esterno trenta milioni di quintali di grano, e non avremo «redenti» nemmeno gli ottocentomila ettari di terreno paludoso - che, secondo il recentissimo studio dell'on. Buoncompagni Ludovisi, possono aumentare la superficie del nostro terreno coltivabile a cereali - noi saremo costretti a fare la politica che piacerà allo Stato nostro fornitore di grano: Russia o America che sia. Se verso quell'epoca non avremo elettrificato le nostre ferrovie, utilizzato e sfruttato sino al possibile tutte le risorse del nostro sottosuolo, la nostra politica sarà dipendente dalla politica della nazione che ci darà o ci negherà il carbone. Insomma: bisogna ridurre al minimo il nostro vassallaggio economico per avere il massimo di libertà e di autonomia in materia di politica estera. In altri termini: bisogna lavorare!
Solo a questo patto l'Italia può diventare la nazione dominatrice del bacino del Mediterraneo e scaricare sulle rive africane di quel mare il più della sua popolazione e delle sue energie. Il mondo che circonda l'Italia ad oriente e ad occidente è straordinariamente rarefatto. Per popolazione e territorio, Italia e Spagna stanno come Francia e Germania. Certi straripamenti delle masse umane sono inevitabili e necessari. Rappresentano i fecondatori «rovesci» della storia. Il dilemma che attende l'Italia è questo: o dividere con Germania e Russia l'onere e l'onore di dirigere la vita del nostro vecchio e tormentato continente, o diventare un grande «casino» internazionale.
Gli italiani che non amano il ruolo di Alfonsi della loro patria smettano d'incarognire su ognuno di tutti gli scogli dell'Adriatico e mettano mano ai torni, ai telai, alle navi, agli aratri.
Lavorare per essere liberi e grandi!
8 gennaio 1921
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