S essantamila detenuti sull'orlo della crisi di nervi, i sindacati degli agenti in polemica permanente, il coronavirus contenuto a fatica nei reparti di isolamento, penitenziari dove i malavitosi si fanno recapitare i telefonini col drone all'ora d'aria. Insomma: per andare a dirigere le carceri italiane in un momento come questo serviva un magistrato dotato di attributi particolari. D'altronde un nuovo capo era necessario, perché la posizione di quello in carica, Francesco Basentini, si era fatta insostenibile, tra rivolte e scarcerazioni di cui non era certo il principale responsabile: ma qualche testa doveva saltare.
Così Basentini viene costretto a dimettersi, e arriva Dino Petralia, palermitano, 67 anni. Ieri mattina, quando dal ministero della Giustizia esce l'annuncio che sarà lui il nuovo capo del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, è difficile trovare all'interno della magistratura qualcuno che non condivida la scelta compiuta dal ministro Alfonso Bonafede. Qualche malumore, piuttosto, ci sarà stato nel partito del ministro: i grillini non amano Petralia, perché proprio lui quando era procuratore aggiunto a Palermo incriminò lo stato maggiore dei 5 Stelle per lo scandalo delle firme false, dando il via al processo che si è concluso a gennaio con una raffica di condanne.
Oggi Petralia fa il procuratore generale a Reggio Calabria, gli mancano tre anni alla pensione, insomma poteva godersi la fine della carriera in un posto confortevole. Invece quando gli arriva la chiamata dal ministero non ha esitato un secondo ad accettare. Questione di carattere, stiamo parlando di uno che quando cessò la carica al Consiglio superiore della magistratura, invece che accomodarsi come i suoi colleghi in un ufficio di prestigio chiese e ottenne di venire spedito a fare il sostituto a Marsala, una Procura sciagurata da cui le toghe fuggivano in massa, alla fine era rimasto un solo pm. Petralia fece le valigie e da Roma scese nel disastro di Marsala a dare la caccia a Matteo Messina Denaro.
Al Csm era arrivato nel 2006, da Sciacca dove era procuratore: nome sconosciuto al grande pubblico, ma sorretto nelle urne dalla corrente che allora andava per la maggiore, il Movimento per la giustizia, fondato da Armando Spataro. Oggi il Movimento è alleato di Magistratura democratica, ma allora faceva - e con un certo successo - una dura concorrenza alla corrente delle toghe rosse. Piombato al Csm Petralia si distinse per la durezza con cui difendeva i colleghi e la categoria negli scontri con il potere politico, soprattutto a partire dal 2008, quando a Palazzo Chigi tornò Silvio Berlusconi. Nelle polemiche con il governo, Petralia era in prima fila. Come quando insorse a difesa dell'amico Spataro, accusato dal centrodestra di avere creato il clima d'odio che spinse un poveretto a lanciare un souvenir di pietra in faccia al Cavaliere. E a costo di sposare cause sfortunate: c'era la sua firma in testa all'appello in difesa dei pm dell'Aquila che avevano incriminato Guido Bertolaso come complice del terremoto. L'inchiesta finì con un buco dell'acqua, ma intanto aveva decapitato la Protezione civile.
Depurata dalla vis con cui tutela la casta delle toghe, la figura di
Petralia è quella di un duro e di un indipendente. Rispetto a Basentini, ha un surplus: conosce il mondo delle istituzioni, sa come muoversi, sa come fare la voce grossa. Ce ne sarà bisogno se le carceri torneranno ad esplodere.
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