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La guerra di Travaglio non finisce mai: si accanisce su Carra

Il direttore del "Fatto" più manettaro dei pm. Nessuna pietà per l'ex dc persino da morto

La guerra di Travaglio non finisce mai: si accanisce su Carra

Leo Longanesi amava dire che in Italia le rivoluzioni cominciamo in piazza ma finiscono a tavola ma forse l'animo degli italiani non è così benevolo come credeva il grande romagnolo. Al contrario, essi tendono a non dimenticare e a riprodurre quasi in eterno le loro piccole guerre civili. Niente pietà, anche per i vecchi protagonisti che, quando defungono, continuano a essere trattati senza alcuna misericordia e soprattutto senza alcuna distanza. Forse la premessa è troppo aulica per parlare di Marco Travaglio ma calza a pennello per il suo ricordo di Enzo Carra, il giornalista ed ex parlamentare scomparso il 2 febbraio, pubblicato sul Fatto quotidiano di ieri.

Per Travaglio, come per la «signora» di Loredana Berté in una famosa canzone di Ivano Fossati, «la guerra non è mai finita». Anzi, i nemici, i corrotti, spuntano da ogni dove e dopo trent'anni siamo punto daccapo perché la rivoluzione giudiziaria non è andata fino in fondo, la ghigliottina non ha lavorato abbastanza e i «contro rivoluzionari» hanno rialzato la testa. Per questo, non bisogna avere pietà alcuna, né verso i reduci vivi, né tanto meno per i morti. Così Carra, giornalista, portavoce di Forlani, arrestato da Di Pietro nel 1993 e esposto in manette, può ben essere definito una delle tante vittime di Tangentopoli. E non solo per quel trattamento da gogna. Come ricorda Gherardo Colombo, autore della introduzione all'ultimo libro di Carra, Ultima repubblica (Eurilink University press) le cui bozze sono state consegnate pochi giorni prima della morte, il pool di Mani pulite poteva evitare di incarcerarlo. Colombo, pubblico ministero di quel gruppo, negli anni successivi era diventato amico di colui che aveva fatto arrestare. E oggi, su quella vicenda di Tangentopoli, ha uno sguardo lucido. «Anche la magistratura (meglio, qualche magistrato)», scrive Colombo, «anche inconsapevolmente ha dato allora una mano a scaricare sulla sua categoria responsabilità non sue», cioè è stato tentato di svolgere un ruolo politico. Ma Travaglio, no, resta tetragono nelle sue certezze di allora e inneggia ancora e sempre al Di Pietro, alle manette, contro un Carra defunto, che per lui resterà in eterno corrotto. Carra ebbe una seconda vita: fu parlamentare della Margherita e poi del Pd. Ma per Travaglio questo non fu un merito; anzi, lascia intendere, fu piuttosto un premio elargito tra politici conniventi. E quindi niente, ecco cancellata tutta la vita successiva all'arresto, ecco Carra fotografato in eterno con gli schiavettoni, con le manette, che per Travaglio era giusto si stringessero ai suoi polsi. Non serve che Carra sia stato un fine giornalista, prima e dopo l'arresto, se abbia scritto dei libri, se sia stato in definitiva una persona, resta il simbolo della santità della rivoluzione giudiziaria: il politico ai ceppi, il massimo dell'orgasmo. Capirà il lettore che quando noi garantisti parliamo di «manettari», non è quindi un linguaggio figurato. Colpisce un altro aspetto nel ritratto al veleno di Travaglio, un termine che appare alla fine, l'evocazione della «giustizia di classe». Carra, spiega il direttore del Fatto quotidiano, si meritava le catene perché in catene finiscono anche i normali arrestati, i poveracci.

Invece di essere coerente, e di scrivere che gli schiavettoni erano e sono umilianti, e quindi chiederne un uso moderato, Travaglio lancia il suo slogan: manette per tutti, che siate tossici o politici, imprenditori o clandestini, finanzieri o ladruncoli da strada. Tutti in manette, tutti in galera, come da tormentone di Giorgio Bracardi. In galera anche i defunti e, non potendoli più tenere in cella, almeno incarcerare la loro memoria.

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