È una storia terribile. Una storia in cui il dramma di quattro ragazzini uiguri deportati in un orfanotrofio lager si coniuga con gli errori di un nostro ministero degli Esteri preoccupato d'infastidire la Cina. Un dramma dipanatosi nel giugno 2020 mentre il governo giallo-rosso con alla Farnesina Luigi Di Maio incensava la benevolenza di Pechino per l'invio di qualche mascherina di pessima qualità. Il dramma di quei quattro ragazzini ritorna d'attualità oggi alla vigilia della discussione in commissione Esteri della Camera della mozione dell'esponente leghista Paolo Formentini che chiede al governo di condannare le pratiche, assimilabili al genocidio, messe in atto ai danni della minoranza musulmana degli uiguri. Ma quei riferimenti alle pratiche di genocidio, definite dalla Risoluzione 260 dell'Onu, imbarazzano un Movimento 5 Stelle e un ministro di Maio propugnatori, a suo tempo, del Memorandum sulla Via della Seta. La mozione, grazie all'intesa con alcune componenti Pd, rischia così di venir annacquata eliminando il riferimento al «genocidio» capace di generare tanti fastidi.
Fastidi assai sentiti alla Farnesina. Anche perché la separazione forzata delle famiglie è tra le pratiche individuate dalla Risoluzione 260. Al nostro ministero degli Esteri la vicenda di Yaheya, Muhammad, Zumeryem e Xiayda figli di Ablikim Mamtinin e Mihriban Kader, una coppia uigura fuggita in Italia nel 2016 e residente con altri tre figli a Priverno in provincia di Latina, è una ferita aperta. La vicenda, rivelata dalla Cnn, inizia nel 2016 quando Mihriban, incinta per la sesta volta, e il marito lasciano lo Xinjang per evitare l'obbligo di aborto. L'unica via d'uscita è un visto turistico per l'Italia, limitato a lei, al marito e al figlio più giovane. In breve però il deterioramento della situazione nello Xinjang porta alla sparizione sia dei figli sia dei familiari a cui erano stati affidati. Così solo nel 2019 la coppia riesce a tornare in contatto con i ragazzini e avviare le pratiche di ricongiungimento. Il problema è però come far uscire dallo Xinjiang quattro minorenni non accompagnati e farli arrivare, nel termine legale di sei mesi, al consolato italiano di Shanghai chiamato, in base ai nulla-osta sul ricongiungimento della Prefettura di Latina, ad emettere i visti per l'Italia.
A fine maggio 2020 Ablikim e Mihriban decidono di affidarsi a un cugino residente in Canada pronto a geolocalizzare i ragazzini seguendoli telematicamente nel viaggio di 4.800 chilometri fino a Shanghai. Incredibilmente i quattro raggiungono Shanghai, ma non riescono a superare i controlli di sicurezza che bloccano l'accesso al 19° piano del palazzo sede del Consolato italiano. A nulla serve l'invio per mail di copia dei nulla osta. Il consolato scarica i quattro a un agenzia esterna, delegata al rilascio visti, che respinge la richiesta sostenendo di non trovare riferimenti nei terminali e invita i ragazzini a rivolgersi al Consolato di Pechino distante 1.200 chilometri. Uno scaricabarile burocraticamente irreprensibile, ma paragonabile alla messa alla porta di quattro ragazzini ebrei nella Germania del Terzo Reich. I nostri diplomatici di Pechino o Shanghai e la Farnesina non possono infatti ignorare una repressione che ha portato alla deportazione in veri lager di quasi due milioni di uiguri.
Ora tra quei due milioni ci sono anche Yaheya, Muhammad, Zumeryem e Xiayda bloccati subito dopo esser stati scaricati dal nostro consolato e trasferiti in un orfanotrofio di stato dello Xinjiang. Un orfanotrofio da cui, dopo il servizio della Cnn, è uscita un'intervista pubblicata su indirizzo Twitter del governo cinese in cui Zumeryem è costretta a rinnegare i propri genitori accusati di averli abbandonati al proprio destino. Un accusa che il fratello Yaheya ha cercato di negare chiamando mamma Kader dal cellulare di un amico.
Dopodiché sulla sorte dei quattro bambini è calato il silenzio più nero. Un silenzio purtroppo condiviso dalle nostre autorità diplomatiche e da un ministro Di Maio che dovrebbe esser il primo a sentirsi responsabile della loro sorte.
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