«Ricorda: siamo quelli di via Caccialupo»: questa la firma con cui i carabinieri della caserma Levante di Piacenza si pavoneggiavano. Non per presentarsi ma per inquadrare meglio la loro «etichetta», lontana dalle regole dell'Arma, vicina a quella del branco. Ora in quella caserma c'è silenzio anche se ieri, davanti ai magistrati, in due hanno cominciato a parlare perché in questa vicenda non tutti hanno giocato lo stesso ruolo. Ci sono cavalli e pedine. Protagonisti e, forse, comparse. Qualcuno avrebbe anche pianto, ma sono solo le prime gocce: nulla a che vedere con il dolore a dirotto che il metodo lacrime e sangue del team procurava a chi li incontrava. Sembra un romanzo criminale eppure non è un noir, semmai una storia grigia, mal scritta e peggio ambientata fra le colline della provincia emiliana, dove la legalità sembra essersi smarrita. Dove si scatta la foto ricordo con lo spacciatore sanguinante e ci si concede un selfie alla Narcos. Dove si sogna il lusso di Jenny Savastano perché sei stufo di pisarei e fasò, si smania per la Ducati da far cantare e pazienza se per averla servono botte e carichi di fumo da smerciare. Non ufficiali, certamente non gentiluomini. Ieri, fra i primi ad essere sentiti dal gip Luca Milani, nel carcere delle Novate di Piacenza, sono stati il carabiniere Daniele Spagnolo, classe '90 di Salemi e l'appuntato scelto Angelo Esposito, 42 anni di Pompei, da 19 nell'Arma. «Facevo quello che mi dicevano di fare»: queste le parole con cui Francesca Beoni ha riassunto quanto sia provato Spagnolo, il suo cliente. «Gli è crollato il mondo addosso ed è pronto a chiarire» è la sintesi di Maria Paola Marro che difende Esposito per cui ha chiesto l'immediata scarcerazione: «Rientrato al lavoro dopo 70 giorni per un incidente stradale sul lavoro, si è trovato in manette». Nelle 326 pagine di ordinanza del tribunale Esposito e Spagnolo compaiono in diversi episodi fra marzo e maggio. Con loro c'è sempre Peppe Montella, considerato il regista del «metodo Levante». Il 27 marzo il gruppo falsifica un verbale dell'arresto di due pusher e costringe con le cattive uno dei due a «collaborare»: diventare un informatore in cambio delle dosi di droga prese dalla «scatola magica», lo scrigno oscuro dal quale Montella & Co prelevavano zuccherini da sballo. L'alternativa? Botte, ritorsioni e violenze. Obiettivo, secondo l'accusa: fare record di arresti, ottenere encomi ed articoli sui giornali per battere in concorrenza le altre stazioni dell'Arma della zona, come quelle di Bobbio e Rivergaro. Dieci giorni dopo si gonfiano le dosi trovate ad un altro spacciatore ed a maggio si «ricrea» una flagranza di reato che per gli inquirenti non c'è. Poi altri episodi, quasi veniali: il gruppo, sull'auto di servizio va, pranzo a Grazzano Visconti, si sbronza di bargnolino, poi shopping a Leroy Merlin, quindi un aperitivo in piazza Cavalli e, in un altro caso una corroborante merenda a casa di mamma Montella. «Esposito ha moglie, due figli, un alloggio di servizio ed un tenore di vita modesto. Non ha mai avuto impressione di partecipare ad interventi illeciti e spesso co-firmare documenti non significa essere presenti all'intera operazione», spiega l'avvocato Marro, «Il mio cliente non ha mai disonorato l'Arma, siamo di fronte a posizioni molto differenti». A chiarire il diverso «contributo» dei singoli militari concorrono anche le prime dichiarazioni dei pusher. Come Ghormy El Mehdi, 30enne marocchino: ha ricostruito il meccanismo di ricompensa con parte della droga sequestrata che poi si rivendeva.
Oggi si spera che a parlare siano sia Montella, sia gli altri pesci grossi della vicenda, dal comandante della compagnia Stefano Bezzeccheri, a quello della stazione Marco Orlando. Carrierista il primo, superficiale l'altro: secondo il tribunale, avrebbero sempre chiuso un occhio. Nel nome del metodo Levante.
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