«Forse non dovevamo impiccarci a Conte, Arcuri e Casalino», dice un parlamentare alla seconda legislatura poco prima dell'inizio dell'assemblea congiunta dei gruppi di Camera e Senato. Nel M5s è la giornata dei bilanci. E dei j'accuse. Al momento in cui scriviamo, l'opzione più onorevole per i grillini sembra una «scissione controllata», con una pattuglia di parlamentari del Movimento che consentirebbe a Mario Draghi di ottenere la fiducia in Parlamento. «Questo succede quando fai entrare gente come Carelli oppure metti un Sibilia a fare il sottosegretario, il sistema poi ti annienta», è la rabbiosa autocritica di una fonte parlamentare al Senato.
I Cinque stelle fanno la conta degli errori e cercano i colpevoli dello sfascio. A partire da Vito Crimi, il reggente vera vittima sacrificale dell'apocalisse del grillismo. Secondo le critiche degli esponenti di tutte le correnti, la responsabilità della polverizzazione cui va incontro il M5s è in gran parte sua. «Vito non ne poteva più già da molti mesi, non era in grado di sostenere una trattativa in una crisi di governo», sospira un deputato dopo l'assemblea su Zoom. Sotto accusa il percorso degli Stati generali, che ad oggi non ha portato in dote una leadership chiara e inattaccabile, seppur collegiale. Troppi tentennamenti, tanti rinvii, tantissime divisioni. Per la maggior parte della grande truppa parlamentare, l'epilogo non poteva essere diverso da questo, senza un leader e con un «movimento allo sbando da più di un anno». Da quando, a gennaio 2020, Luigi Di Maio si è dimesso dalla carica di capo politico slacciandosi la cravatta nella conferenza stampa al Tempio di Adriano, a Roma. Da allora, ragionano nel M5s, i pentastellati non ne hanno più imbroccata una. Un lungo elenco di fallimenti che ha raggiunto il culmine con la caccia ai responsabili aperta qualche settimana fa nel tentativo di salvare Conte. Uno dei rimpianti, infatti, è quello di essere andati fino in fondo con il nome dell'avvocato di Volturara Appula. Quando invece, nella fase iniziale della crisi, sarebbe stato possibile riuscire a piazzare Di Maio a Palazzo Chigi. Questo è il pensiero di chi sta mettendo in discussione tutta la linea adottata dal gruppo dirigente dall'inizio delle fibrillazioni interne al governo giallorosso. Una strategia fallimentare che ha raggiunto il culmine nelle telefonate ai responsabili, le anime perse del Parlamento in cerca di uno strapuntino corteggiate proprio da chi l'Aula avrebbe dovuto aprirla come una scatoletta di tonno.
Ed ecco allora che al centro delle recriminazioni finiscono due personaggi centrali dell'esecutivo uscente, grillini e vicinissimi al premier dimissionario. Si tratta di Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e di Federico D'Incà, ministro per i Rapporti con il Parlamento. Entrambi sotto il fuoco incrociato delle polemiche da parte del gruppo parlamentare. Tutti e due in prima linea nel tentativo disperato di trovare qualche responsabile per sostituire i renziani in maggioranza accanto a Conte.
«Bisognava sedersi prima al tavolo con Renzi e non andare a caccia di Scilipoti», è un altro giudizio tranchant che arriva dalla pancia del gruppo. Un obiezione a cui gli oltranzisti rispondono tirando fuori la teoria secondo cui Renzi avesse già un accordo con il centrodestra. Frase fatta filtrare anche da Palazzo Chigi, non ancora smentita. Spartito fatto proprio dall'insolita alleanza tra contiani e filo-Di Battista.
Eppure il gruppone dei pragmatici, tentato dal sì alla fiducia a Draghi, è convinto che sia stato un errore impiccarsi a Conte. Tanto che in qualche conciliabolo finisce sotto accusa pure Beppe Grillo, che ha sempre imposto al M5s la linea del «Conte o morte». Una linea ribadita ancora ieri dal fondatore.
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