Isole Salomone contro la Cina. L'Australia manda l'esercito

Tre giorni di violenze per denunciare lo strapotere di Pechino e sostenere Taiwan. Dove cresce la tensione

Isole Salomone contro la Cina. L'Australia manda l'esercito

Una rivolta anti cinese che divampa ormai da tre giorni ha indotto il premier australiano Scott Morrison a inviare centinaia di militari e poliziotti nelle isole Salomone, un arcipelago del Pacifico solitamente al di fuori da ogni tensione internazionale. La situazione stava sfuggendo di mano alle autorità del piccolo Stato a poche ore di volo dall'Australia. Nella capitale Honiara, migliaia di persone hanno devastato e incendiato la locale Chinatown e tentato di assaltare l'edificio del Parlamento. Dopo violenti scontri la polizia ha imposto il coprifuoco.

I manifestanti pretendono le dimissioni del capo del governo, Manasseh Sogavare, cui viene rinfacciata la decisione che risale ormai al 2019 di far chiudere dopo quasi quarant'anni l'ambasciata di Taiwan e di procedere al riconoscimento in sua vece della Cina comunista, che ieri ha espresso timori per i suoi cittadini e sostegno a Sogavare. Dietro tanta rabbia c'è in realtà soprattutto una frattura di lunga data (già nel 2006 c'erano state violenze simili) tra due componenti tribali della popolazione dell'arcipelago: quella che ha vinto le elezioni due anni e mezzo fa è accusata dall'altra di favorire la ricca minoranza cinese a danno dei locali, che vivono poveramente.

Sogavare lo stesso che ieri ha chiesto l'intervento australiano - aveva volentieri accettato le generose offerte che Pechino fa ai governi dei pochi Paesi che ancora riconoscono Taiwan per indurli ad abbandonarla: nel caso delle Salomone, si è impegnata a realizzare gratuitamente un nuovo stadio da 74 milioni di dollari e altre infrastrutture. Intanto, ha subito costruito un'imponente ambasciata nel centro di Honiara. Sono soldi spesi anche con l'obiettivo di metter piede in Paesi con importanza geostrategica (nel Pacifico come in Africa o nell'Oceano Indiano) per arrivare a costruirvi installazioni militari. Il meccanismo è ormai noto: le economie di questi piccoli Stati sono troppo deboli per consentir loro di ripagare i prestiti ricevuti, e i governi alla fine cedono alla pretesa cinese di costruire in alternativa basi aeree o navali.

Solo in Oceania, dove Australia e Stati Uniti sono sempre più in allarme per l'espansione cinese, sta già accadendo a Tonga (che si è indebitata con Pechino per 108 milioni di dollari, un quarto del Pil nazionale), a Kiribati (dove gli Usa guardano con preoccupazione al progetto cinese di costruire una nuova pista d'atterraggio), a Vanuatu (dove già sono in corso lavori per una futura base navale cinese), a Papua-Nuova Guinea, dove la compagnia di Stato di pesca cinese investe miliardi in infrastrutture sospette. Alle isole Samoa, invece, il nuovo governo ha cancellato un piano finanziato da Pechino con 100 milioni di dollari per ampliare un porto locale.

Basta insomma dare un'occhiata a una mappa del Pacifico per capire che la Cina punta a sovvertirvi la storica egemonia americana e australiana.

Ma quello che accade alle Salomone va visto anche nell'ottica del braccio di ferro tra Washington e Pechino sulla caldissima questione di Taiwan. Ieri è arrivata nell'isola una missione del Congresso Usa, la seconda in questo mese.

A due settimane dal summit mondiale sulla democrazia indetto da Joe Biden a cui Taiwan è stata invitata ufficialmente, a Taipei si parla ormai di «solida amicizia» con gli americani. A Pechino schiumano rabbia, e hanno reagito inviando nello stretto di Taiwan navi e aerei militari.

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