Una lista di buone ragioni per mettere mano al fisco italiano, quindi fare quella riforma che invece sembra scivolare, giorno dopo giorno, fuori dall'agenda del governo. La pressione fiscale sui contribuenti italiani è più alta di quanto dicano le statistiche ufficiali. E non è un problema di percezione.
Uno studio del Consiglio e della Fondazione Nazionale dei Commercialisti («Analisi della pressione fiscale in Italia, in Europa e nel mondo. Struttura ed evoluzione dei principali indicatori di politica sociale») ha stimato che se si sottrae l'economia sommersa (215 miliardi all'anno pari al 12% del Pil) la pressione fiscale raggiunge il 48,2 per cento. È il 5,8% in più rispetto alla stima ufficiale, che è calcolata con un semplice rapporto tra entrate complessive e ricchezza prodotta, senza calcolare l'effetto distorsivo dell'evasione. Il 48,2% è quindi quanto pesa il fisco sui contribuenti che pagano le tasse. Altro dato per nulla scontato che emerge da Fondazione e dal Consiglio dei commercialisti guidato da Massimo Miani (nella foto), la pressione fiscale l'anno scorso è tornata a crescere dello 0,7% dopo un periodo di tregua che è durato cinque anni.
Dopo l'ultimo pesante choc del 2012-2013 (+2,1% con il governo Monti), «nel quinquennio 2014-2018 si è verificato un significativo rientro (-1,7%), che ha riguardato, però, prevalentemente le imprese, dal momento che la pressione fiscale sulle famiglie, il cui gettito totale è pari a 323 miliardi di euro su un totale di 758,6 miliardi», è aumentata.
Gli interventi sulle imprese non hanno modificato il primato negativo italiano che riguarda il cuneo fiscale, quindi la differenza tra il costo lordo del lavoro e quanto un dipendente si mette in tasca al netto di fisco e previdenza. L'indicatore Ocse che misura il cuneo pone l'Italia ai primi posti in Europa: terzo posto per dipendente single con il 48% e primo posto per dipendente sposato con due figli con il 39,2%.
La conferma che il fisco italiano penalizza le famiglie e il lavoro. Il confronto con le economie analoghe alla nostra, mostra una pressione fiscale «sbilanciata dal lato del lavoro rispetto al consumo. Infatti, nell'ultimo anno con dati disponibili per un confronto, il 2018, l'Italia si pone al 7° posto nel primo caso e al 21° posto nel secondo. In particolare, per il gettito Iva in rapporto al Pil, l'Italia si colloca al 26° posto nella graduatoria Eu27, mentre per il gettito dell'imposta personale sul reddito, l'Italia si colloca al 5° posto». Il Totale Tax Rate, indicatore di pressione fiscale sui profitti societari calcolato dalla Banca mondiale, in Italia «sfiora il 60%, risultando tra i più elevati in Europa».
Male anche l'efficienza del sistema fiscale. Anche in questo caso l'indice citato dai commercialisti è della Banca mondiale e precisamente nel rapporto Paying taxes 2020, secondo il quale l'Italia è al 128° «posto gravata dai tempi lunghi stimati per gli adempimenti fiscali e per le fasi successive di gestione dei rimborsi e delle verifiche fiscali».
Il futuro non riserva niente di buono per i contribuenti italiani. Nella Nadef (la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza) approvata da poco, il governo ha ammesso che la pressione fiscale aumenterà anche quest'anno dello 0,1 per cento. Poi nel 2021 ci sarà un'impennata di 0,5 punti percentuali che porterà la pressione fiscale ufficiale (sempre nella versione che non tiene conto del sommerso) al 43%.
Nel 2022 e nel 2023, ci sarà una ulteriore crescita dello 0,4% complessivo. Il tutto in anni che saranno cruciali per risollevare l'economia colpita dal Coronavirus. Tempi che dovrebbero essere impiegati a rendere più competitivo il Paese. Magari abbassando le tasse.
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