«Sarà un anno pieno di belle cose». Sven Goran Eriksson non è affatto un ice man, l'uomo di ghiaccio ha cervello caldo e un cuore non più riservato ai suoi mille amori per femmine bellissime. Di colpo la vita gli ha tolto la speranza, un ictus e poi la scoperta del tumore, saette improvvise, micidiali, al termine di una mattinata di allenamento, la solita corsa, uguale a mille altre, cinque chilometri conclusi, stavolta, nella nebbia degli occhi e con il corpo sgonfio. Gli anni suoi sono settantasei, da celebrare il prossimo febbraio, giorno 5 ma diventano pagine stropicciate e bagnate di un diario fino a ieri pieno di cronache e di storie importanti. Ha riempito la sua sala dei trofei vincendo tutto e dovunque, Portogallo, Italia, Inghilterra, Messico, Costa d'Avorio, Filippine, Cina, uomo di mondo, allenatore astuto, professionalità e cultura, intelligenza e fascino, ha conquistato trofei e cuori di donne bellissime, moglie e amanti, tradimenti in contemporanea, ammettendo la colpa, il calcio è una cosa, l'attrazione fatale un'altra, ogni tanto gli piaceva dire «ne è valsa la pena», oggi va aggiunto un interrogativo ma la vita è stata bella e vissuta in modo anche spettacolare sulle pagine e nelle fotografie dei fogli di ogni parte del mondo.
L'annuncio tremendo di questo conto alla rovescia, «mi resta soltanto un anno di vita», spiazza chi pensa che la gente di sport goda del privilegio di salute, di sanità eterna, l'album delle figurine ci ha portato via Paolo Rossi e Gianluca Vialli, Sinisa Mihajlovic e Davide Astori, tempi diversi e distanti ma epiloghi tragici di atleti in faccia al sole della vita. Sven Goran Eriksson era arrivato in Italia voluto da Dino Viola, raffinato presidente della Roma.
Lo svedese aveva portato il Benfica a vincere due campionati, una coppa e una supercoppa portoghesi; al termine di un allenamento si accorse di una automobile parcheggiata di fianco alla sua e a bordo della quale quasi si nascondeva una strana figura. Sven prese la strada di casa ma l'auto e il tizio lo seguirono, fino al momento in cui l'allenatore si fermò, scese dalla vettura e quasi sfidò l'inseguitore che si presentò: «Sono dell'ambasciata italiana di Lisbona. La Roma calcio chiede il suo numero di telefono». Tre mesi dopo, Sven Goran Eriksson stava seduto sulla panchina della Roma come direttore tecnico, consulente dell'allenatore Roberto Clagluna. Furono vacanze italiane, trascorse poi con la Fiorentina, un breve ritorno al Benfica e poi Genova con la Sampdoria e ancora la capitale, stavolta con la Lazio, sedici anni nei quali imparò benissimo la nostra lingua, con un accento da catalogo Ikea però sempre affabile, rispettoso, educato. Disse un giorno: «Il limite di un lavoro è avere paura di sbagliare. Il calcio è la mia vita, ma la mia vita è molto più importante del calcio».
È la didascalia di queste ore, contro il vento dei ricordi e delle suggestioni, soffocato dalla rabbia schiumante per una notizia che ha sciolto il ghiaccio attorno a un uomo, Sven non ha voluto nascondersi dietro la sofferenza, abituato a sfide più semplici. Questa sarà una partita difficile. Ha deciso, comunque, di viverla.
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