L'eterno comunista: con i carri armati russi e contro Solzenicyn

La vita intera e la carriera in ossequio all'unica "Chiesa": il Pci e l'Urss. Nel '56 condannò la rivolta ungherese, poi attaccò ogni dissidente

L'eterno comunista: con i carri armati russi  e contro Solzenicyn
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Da quando è caduto il muro di Berlino e con esso è crollato anche da noi il Pci, abbiamo scoperto che, nonostante il partito comunista italiano avesse avuto un seguito di massa, e anche la convinta adesione di una gran parte del mondo intellettuale, i comunisti erano stati pochi. E quei pochi che c'erano, lo erano stati comunisti di un comunismo speciale. Veltroni ha voluto far credere che non è mai stato comunista. È stato solo direttore dell'Unità, quotidiano del partito comunista. D'Alema ammette, anzi rivendica, sì, di esser stato comunista, ma orgogliosamente un comunista italiano. Insomma, l'esser stati comunisti in Italia non avrebbe significato semplicemente cercare un'originale «via italiana al socialismo», ma qualcosa che col comunismo realizzato non aveva nulla a che fare. Il comunismo italiano era così originale che finiva di essere comunismo. Era invece vuoi il propugnatore di «una democrazia progressiva» vuoi la piena attuazione della «Costituzione più bella del mondo» vuoi il presidio contro il risorgente pericolo fascista.

Come è stato possibile, vien da chiedersi, che si sia perpetuata la contraddizione di professarsi comunisti e di vantarsi democratici? Più che una contraddizione, a ben guardare, si dovrebbe parlare di dissociazione tra ideologia professata e politica perseguita. Da una parte c'erano i comportamenti di un partito che prima ha combattuto per la rinascita della democrazia e poi per la sua difesa e compimento. Dall'altra continuava a professare un'ideologia che fungeva da collante di una comunità di fedeli erogando loro una gratificazione simbolica capace di alimentare una passione e una militanza uniche nella storia d'Italia.

In poche parole, professarsi comunisti significava sentirsi - ed essere - una forza democratica di sinistra, ma al contempo nutrire un'identità utile a farsi sentire un partito diverso, alternativo, incontaminato rispetto alla dominante politica politicante di un'Italia sempre a rischio di cadere nel gorgo di un neofascismo mai davvero debellato e comunque incapace di realizzare una democrazia compiuta. Questa dissociazione comportava certo dei benefici politici: salvaguardare la saldezza di una chiesa che rimaneva al riparo dalle dure repliche della storia.

La biografia politica di Giorgio Napolitano è per certi versi illuminante e emblematica di questa contraddizione. Lui, comunista migliorista, ossia esponente di quell'ala del Pci che degli orrori del comunismo reale aveva preso coscienza, nei momenti più drammatici di vita del comunismo internazionale ha dovuto chinare la testa e adeguarsi all'obbedienza che richiedeva la chiesa comunista.

Nel 1956, di fronte alla rivolta di Budapest non se l'è sentita di disobbedire e ha avallato il sopruso consumato dalla madre patria del comunismo a danno di un popolo che anelava solo alla libertà. La repressione del moto ungherese era necessaria sostenne - per «salvare la pace nel mondo».

Ancora. Nel febbraio 1974, pochi giorni prima dell'espulsione di Aleksandr Solzenicyn dall'Urss, fu autore di una nota riservata del Pci nella quale veniva attaccato lo scrittore perché con la sua dissidenza avrebbe danneggiato l'Urss e la distensione.

La difficoltà a sostenere la dissidenza degli artisti dell'Est ritorna nel 1977, in occasione della Biennale del dissenso organizzata a Venezia da Carlo Ripa di Meana. Napolitano non prese le distanze dalla linea, fatta di ostracismo e di ostacoli frapposti al suo finanziamento, seguita dal Pci.

A comunismo defunto, è tornato a riflettere sul travagliato percorso della sua vita di comunista. «Il sentiero della mia vita (riconobbe con indubbia sincerità ma anche con una punta di auto-assoluzione) è un processo passato attraverso prove ed errori. Ho attraversato delle revisioni profonde, molto meditate e intensamente vissute».

La sua storia insegna che l'esser stati sostenitori di una via originale al socialismo, come lo fu convintamente il Pci, non ha evitato ai suoi dirigenti di sottostare a

lungo all'obbligo di obbedienza al comunismo ortodosso, alla sua ideologia, all'internazionalismo, rendendo con ciò impossibile una riunificazione con la sinistra che col totalitarismo comunista aveva già fatto i suoi conti.

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