C'è un giudice che i carabinieri della Stazione Levante se li ricorda bene. É un magistrato che ha avuto un ruolo importante nella storia giudiziaria del paese: Italo Ghitti, giudice preliminare dell'operazione Mani Pulite, il gip che nel 1992 firmava le ondate di arresti chiesti da Di Pietro & C. Ghitti ha concluso la carriera come presidente del tribunale di Piacenza. Era davanti a lui, dal 2013 al 2017, che arrivavano gli uomini arrestati dall'appuntato Peppe Montella e dagli altri della sua squadra. E al vecchio, esperto giudice bastava un occhio per capire che qualcosa non quadrava.
Dicono, dottor Ghitti, che lei una volta mise per iscritto le sue proteste per i metodi della Levante. «Non è vero. Ma mi arrabbiai molto, questo sì, e lo feci in pubblica udienza. Volli che tutti sapessero che quel sistema per me non era accettabile». In che senso? Parla delle botte? «No, di questo non sapevo nulla, e fatico a credere che ci fossero torture, altrimenti gli avvocati me lo avrebbero fatto sapere. Ma era chiaro il sistema degli arresti a strascico, dei rapporti con i confidenti, delle manette usate per gonfiare le statistiche. Non era un caso che gli arresti avessero una impennata a fine mese, quando si avvicinava il momento di tirare le somme. Allora andavano al parco e raccattavano quello che capitava».
Ghitti è in pensione da qualche anno, ma il clima che si respirava a Piacenza se lo ricorda bene. Così quando nei giorni scorsi ha letto degli arresti di Montella e degli altri carabinieri della Levante non è rimasto affatto stupito. Anche perché di una storia praticamente identica aveva dovuto occuparsi nel 2014, quando era arrivato da poco nella città emiliana. Allora non si parlava di carabinieri ma di polizia, per il resto tutto uguale: come se tra la via Emilia e il Po girasse un vento strano di impunità, una visione disinvolta delle regole che attraversa le forze dell'ordine. Allora i carabinieri arrestarono i poliziotti, come oggi la guardia di finanza ha arrestato i carabinieri. «Anche allora c'erano di mezzo storie di escort, di droga, di ricatti - ricorda Ghitti - quasi tutti scelsero il rito abbreviato, solo uno si fece processare da me. Gli diedi vent'anni. La cosa che mi lasciò più incredulo è che di un carico di settecento grammi di hashish di cui io avevo ordinato la distruzione si erano impadroniti i poliziotti e lo avevano girato a un certo Giorgio il Chimico, uno della banda di spacciatori».
É esattamente quanto adesso facevano i carabinieri della Levante, la droga sequestrata fatta sparire nel retrobottega della caserma, usata per compensare i confidenti, oppure direttamente venduta per fare soldi. Per questo Ghitti non si stupisce, anzi, adesso tutto quadra. Come certe stranezze allora inspiegabili, carabinieri che da un comando di fuori Piacenza arrivavano in città e facevano arresti in zone che i carabinieri locali nemmeno sfioravano: per forza, erano quelle dei loro protetti.
Come nasce, tutto ciò, e come degenera? Ghitti non fa nomi, ma si ricorda di ufficiali con la mania della copertina, carabinieri che sembrava vivessero solo per farsi immortalare sulla Libertà un giorno sì e l'altro anche. É quella smania di protagonismo, racconta il giudice che travolse Tangentopoli, che si trasmette giù per la scala gerarchica, e alla fine si trasforma in meccanismo criminale. «E siccome sono vecchio - dice Ghitti - faccio i confronti col passato, su come si facevano le indagini una volta, su quanti sacrifici c'erano dietro ad ogni arresto.
Qua invece contava solo fare numeri, così al ventisette del mese tutti ai Giardini Margherita a tirar su qualche gambiano arrivato da Modena con tre grammi in tasca. E a ricattare i ragazzi presi col fumo: o mi fai prendere qualcuno o ti faccio togliere la patente».
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