Attività in appalto sospese all'ex Ilva di Taranto. Lo ha comunicato Acciaierie d'Italia con una lettera venerdì sera alle 145 imprese dell'indotto. «Per sopraggiunte e superiori circostanze vi comunichiamo la necessità di sospendere le attività oggetto degli ordini, prevedibilmente fino al 16 gennaio 2023». Significa che altri 2mila operai resteranno a casa, insieme agli altri 4.500 già in cassa integrazione. E che la produzione scenderà ancora. Eppure l'azienda precisa che «tutti gli investimenti industriali e ambientali previsti nel piano di riorganizzazione sono confermati».
Allora cosa succede? Che scarseggia la liquidità per le materie prime e la produzione. Lo ha detto in tutti i modi, da mesi, e in tutte le sedi, chiedendo alla parte pubblica di intervenire. Il presidente Franco Bernabè anche a telecamere accese: «Dopo la perdita di maggioranza da parte di ArcelorMittal, Acciaierie ha vissuto sostanzialmente senza aver accesso al credito bancario: le nostre difficoltà sono importanti, non di mercato, ma di funzionamento dell'azienda in queste condizioni, in cui l'azionista di riferimento ha perso le sue caratteristiche originarie di privato e c'è una compartecipazione di due azionisti che devono dotare l'azienda di risorse importanti».
Ma i governi finora hanno ignorato l'allarme. L'unica soluzione che sono stati capaci di trovare è mettere in cassa integrazione straordinaria gli operai. Lo ha fatto Andrea Orlando mandandone a casa in 3mila, senza accordo coi sindacati, che si sono sempre opposti. Da domani altri 2mila dell'indotto a casa. A questi si aggiungono i 1.500 messi in cassa integrazione da Di Maio, che sarebbero dovuti rientrare nel 2023 al ritorno degli 8 milioni di tonnellate di produzione. Oggi Ilva viaggia a 3,7 milioni di tonnellate e con questa sospensione scenderà ancora. Un disastro.
Che arriva proprio ora che avendo completato il piano ambientale nei tempi previsti investendo un miliardo di euro solo sulle prescrizioni. «Ora siamo nel paradosso che le condizioni ambientali sono migliorate ma la fabbrica non marcia perché l'esposizione finanziaria non consente l'acquisto di materie prime». Ilva non produce, non guadagna, non può pagare i fornitori. Eppure la responsabilità è totalmente dello Stato, da quando il governo Conte ha deciso di chiudere la partita con ArcelorMittal facendo subentrare il pubblico all'investimento previsto e vincolante di 4 miliardi. Il governo Draghi nel decreto Aiuti-bis ha destinato un miliardo ad Invitalia per l'aumento di capitale entro il 2022. Ma questo miliardo all'azienda non è mai arrivato e fra un mese scade. Poi nel decreto Aiuti-ter ha messo un ulteriore miliardo, sprecato per un fantomatico progetto di Ilva a idrogeno green che richiede ben 5 miliardi solo per costruire l'impianto.
E chissà quanti per l'idrogeno, mentre oggi non riesce neppure a pagare le bollette a Eni, nonostante sia un fabbisogno residuale rispetto alla maggior parte del gas di riciclo che Ilva recupera dagli altoforni. Questa settimana ci sarà l'approvazione definitiva dell'Aiuti-ter al Senato. La maggioranza potrebbe destinare quel miliardo al salvataggio della fabbrica, anziché sprecarlo in progetti irrealizzabili.
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