In India è caduta anche l'ultima finzione. Fin qui il governo del premier nazionalista Narendra Modi ha sempre scaricato sui gruppi dell'estremismo indù le responsabilità per le ricorrenti persecuzioni anti-cristiane sfociate spesso in attacchi violenti a fedeli o istituzioni religiose. Ora però non ci sono più giustificazioni. Il blocco dei finanziamenti esteri destinati alle Missionarie della Carità, l'ente di beneficenza fondato da Maria Teresa di Calcutta, è stato deciso dal governo centrale e rappresenta, di fatto, l'istituzionalizzazione delle persecuzioni alimentate dal nazionalismo induista. Una nazionalismo di cui il Bharatiya Janata Party (BJP), il partito di Modi al potere dal 2014, è la diretta incarnazione politica. Il blocco dei fondi è stato deciso dal Ministero dell'Interno che il 25 dicembre, cioè il giorno di Natale, ha annunciato il mancato rinnovo della licenza indispensabile per utilizzare le donazioni estere. Il blocco delle donazioni costringe le missionarie della Carità a rinunciare ai fondi, del valore di oltre 750 milioni di dollari annui, indispensabili per gestire le case di accoglienza sparse sull'immenso territorio indiano. Stando a un comunicato del Ministero degli Interni il rinnovo della licenza dell'ente benefico sarebbe stato «rifiutato», perché «non vi erano le condizioni di ammissibilità» previste dalla legge. Secondo Mamata Banerjee, la governatrice del Partito del Congresso che guida lo Stato di Calcutta dove la congregazione missionaria ha la sua sede centrale, «almeno 22mila assistiti e collaboratori» dell'ente potrebbero restare senza cibo e medicine.
La scelta rischia però di compromettere l'immagine dell'esecutivo nazionalista. Da mesi le comunità cristiane sono bersaglio di violenze culminate, la notte di Natale, nell'attacco alla chiesa del Santo Redentore a Ambala, nello Stato di Haryana, conclusosi con la distruzione della statua del Cristo. E ad alimentare violenze e persecuzioni contribuiscono le discusse leggi anti-conversione, già in vigore in 7 stati controllati dai nazionalisti indù, che prevedono fino a 10 anni di carcere per chi è giudicato colpevole di convertire qualcuno «con la forza», con «metodi fraudolenti» o «con il matrimonio». Introdotte per bloccare le conversioni sempre più frequenti tra gli appartenenti alle caste inferiori, le leggi rappresentano di fatto un incitamento alla discriminazione anti-cristiana. Ora però il premier indiano rischia di dover fare i conti con le conseguenze delle proprie scelte. Mettere nel mirino 30 milioni di cristiani indiani, dopo aver di fatto legittimato la discriminazione dei musulmani, significa rinunciare definitivamente a quell'icona di paese laico e multi-religioso che identificava l'India. La svolta rischia di incrinare anche la credibilità del premier. Il 30 ottobre scorso, dopo un incontro in Vaticano con Papa Francesco, il primo ministro aveva annunciato una prossima visita del Pontefice nel subcontinente indiano. Un impegno che, vista la situazione, appare quanto mai improbabile.
Ma la legittimazione delle persecuzioni anti-cristiane rischia di incrinare anche i rapporti di Modi con gli Usa, da tempo in allarme per le incriminazioni dei
gruppi evangelici «colpevoli» di convertire le caste inferiori. E infatti la «Commissione degli Stati Uniti sulla libertà religiosa internazionale» ha già inserito l'India tra i Paesi che destano «particolare preoccupazione».
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