L'Italia fragile perde il senso della piazza

Dopo tre mesi di clausura l'Italia mette i suoi problemi in piazza. E scopre che la normalità più difficile da riconquistare è proprio la libertà di manifestazione, e non soltanto del pensiero

La protesta dei ristoratori milanesi all'Arco della Pace. (Fotogramma)
La protesta dei ristoratori milanesi all'Arco della Pace. (Fotogramma)
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Dopo tre mesi di clausura l'Italia mette i suoi problemi in piazza. E scopre che la normalità più difficile da riconquistare è proprio la libertà di manifestazione, e non soltanto del pensiero. Diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione, ma come atrofizzati da un lungo periodo di limitazioni per decreto e di angosce dettate dall'emergenza. Semplice: il dissenso non può essere imbrigliato nella Rete, confinato in sfoghi da tastiera o addirittura ridotto a ribellione invisibile e silenziosa. Qualcuno forse non aveva fatto i conti con gli effetti collaterali della cura anti-Covid. Lacrime e sangue ci consegnano il referto di un Paese allo stremo. È nella Fase 3 che vengono allo scoperto rabbia, frustrazione e desiderio di rivalsa. La gente scende in strada per dimostrare che sì, esiste ancora, ed è stanca di sopravvivere. La narrazione del «nessuno sarà lasciato indietro» si scioglie sui sampietrini di un'estate che si annuncia bollente.

Inutile negarlo, va risolto il dilemma delle piazze. Che senso hanno così? Non è concepibile vietarle, non è consentito riempirle. Basta sfogliare l'album delle ultime settimane per collezionare paradossi e veleni: ancora in pieno lockdown, i cortei dei centri sociali per il 25 Aprile, passati pressoché sotto silenzio; la protesta civile dei ristoratori milanesi, mazziati e multati nonostante le loro sedie vuote e distanziate; la gazzarra arancione dei negazionisti «no mask» agli ordini del generale Pappalardo; quindi la manifestazione del centrodestra in piazza del Popolo il 2 giugno, con fin troppe adesioni anche per ammissione degli stessi leader, con annesse polemiche per gli affollamenti e i selfie senza mascherine; infine gli indegni attacchi a polizia e giornalisti da parte di ultrà ed estremisti di destra, visti sabato pomeriggio al Circo Massimo. Anche le Sardine ieri sono tornate in campo, inginocchiandosi in centinaia un po' per George Floyd e un po' per chiedere lo ius soli.

Intendiamoci, il mancato rispetto delle regole e il ricorso alla violenza non possono essere in alcun modo giustificati. Ma è chiaro che la crisi sociale che cova sotto le ceneri della crisi economica post Coronavirus stavolta non potrà essere liquidata con la retorica da «pancia del Paese». Bisogna interpretare testa e cuore di chi porta in giro uno striscione, una richiesta di soccorso o anche solo un'istanza ritenuta urgente e legittima. Viviamo giorni preziosi per ridare ossigeno alla democrazia.

Non lo capiremo guardando nel nostro recinto affollato di calcoli politici e divisioni strumentali, magari sarà l'eco proveniente dalle manifestazioni in corso negli Stati Uniti e nelle altre città del pianeta a farci superare la logica della piazza «buona» e della piazza «cattiva». Se è ancora vero che «la libertà è partecipazione», oggi risulta piuttosto complicato metterla al bando e bollarla come puro «assembramento».

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