Una vicenda di competenza statale. Vista dalla Lombardia, così va intesa la gestione dell'epidemia Covid, compresa la questione della mancata zona rossa nella Bergamasca.
Una vicenda nelle mani del governo nazionale fin dall'inizio del quadrimestre di crisi che si è aperto con lo stato d'emergenza dichiarato il 31 gennaio dal Consiglio dei ministri. Così è la questione vista da Milano, e un esame attento dei provvedimenti adottati in successione conferma quest'impostazione, tant'è vero che il primo decreto legge governativo, quello adottato il 23 febbraio, stabilisce (all'articolo 3) che le «misure di contenimento» siano introdotte proprio con decreti del presidente del Consiglio, sentiti i ministri e le Regioni interessate. Il comma successivo, è vero, prevede anche che «nelle more dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri», misure simili potessero essere adottate anche in virtù di varie leggi ordinarie - fra cui quella del 1978, che indica un potere in capo alle Regioni - ma si tratta appunto di un'ipotesi residuale, e mai concretizzata, visto che quelle «more» non si sono mai viste in una successione di provvedimenti a firma governativa che ha visto uscire cinque decreti del presidente in poco più di 15 giorni.
Senza indugiare in tecnicismi il punto è questo: la via maestra con cui intervenire era il Decreto del presidente del Consiglio, e ciò era stabilito proprio dal decreto legge del 23 febbraio che segnava l'esordio dello schema decreto-Dpcm, lo strumento con cui si è sempre intervenuti in seguito. Questa prioritaria competenza statale, fra l'altro, è perfettamente coerente con la Costituzione, che all'articolo 117 - come ha autorevolmente spiegato il giudice costituzionale emerito Sabino Cassese - assegna allo Stato una competenza esclusiva in materia di «profilassi internazionale», mentre all'articolo 120 stabilisce che le Regioni non possono «limitare l'esercizio del lavoro in qualunque parte del territorio nazionale».
In definitiva, l'unico intervento congiunto ministro-Regione è stato quello delle ordinanze firmate dal ministro della Salute Roberto Speranza d'intesa col governatore Attilio Fontana. Il 21 Speranza si era precipitato a Milano, e pare quasi una «cortesia istituzionale». Dal 23 si è sancita la supremazia statale e questo preminente potere statale è sempre stato rivendicato in tutte le sedi dai componenti del governo. Pochi giorni fa il ministro Francesco Boccia ha richiamato la legge del '78 per affermare che «anche la Regione poteva istituire la zona rossa», ma è lo stesso ministro che ha detto e ribadito altro per mesi. Era il 4 febbraio e si parlava della lettera dei governatori che chiedevano al governo misure di quarantena per gli studenti (ovviamente di ogni etnia) che facessero ritorno dalla Cina. Già allora il ministro per gli Affari regionali voleva far capire l'«antifona». «Le linee guida in materia di tutela della salute disse - in Italia sono competenza dello Stato.
L'organizzazione sanitaria spetta alle Regioni. Ognuno faccia il proprio lavoro - avvertì - Decide il ministro della Salute e le Regioni si adeguano. Tutto molto chiaro. Basta leggere la Costituzione». Nel caso in cui non fosse chiaro, un mese esatto dopo, alla Camera, sempre Boccia ribadiva che «il complesso delle norme vigenti ci consente di dire con chiarezza che in caso di emergenza nazionale decide lo Stato, anzi se permettete comanda lo Stato». Ma anche il 24 febbraio, tre giorni dopo Codogno, lo stesso titolare degli Affari regionali aveva lanciato un appello pressante alle Regioni: «Si raccordino con l'autorità centrale».
Lo riporta un articolo della Stampa, dove si legge anche che Speranza raccomandava agli enti locali di «non fare scelte unilaterali» e che il premier Giuseppe Conte si diceva «pronto a misure che contraggono le prerogative dei governatori». E in effetti proprio in quei giorni il governo, come solo attore costituzionale titolato ad agire, aveva impugnato l'ordinanza che la Regione Marche aveva adottato con l'obiettivo di chiudere le scuole.
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