«Siete irresponsabili, non si può aprire una crisi al buio in questo momento». «Allora provate a cercarli, questi Responsabili. Non eravate già d'accordo con Brunetta e lady Mastella? Ci vediamo in Aula». Se doveva essere il vertice della pace, si vede che qualcuno ha sbagliato indirizzo. Per fortuna sono collegati su Zoom e il contatto fisico è evitato. «Matteo deve capire che l'unica alternativa a Conte sono le elezioni», dicono Orlando e Franceschini. «E Giuseppe deve prendere atto che quest'esperienza è al capolinea», replica Teresa Bellanova. Sembrano parole tombali, definitive, il segno che si è oltrepassato il punto di non ritorno. In realtà, dietro le quinte, si tratta a oltranza. Il premier infatti, dopo aver riscritto il Recovery come lo voleva Renzi, ha capito che il Colle non gli offrirà sponde per «avventure parlamentari» a caccia di una fiducia qualsiasi, perciò si prepara a cedere ancora e a negoziare il suo reincarico. Insomma, una crisi pilotata è tuttora possibile. «Ma prima voglio garanzie».
Il governo comunque rimane appeso a un filo sbrindellato: già oggi le due ministre di Italia viva, Teresa Bellanova e Elena Bonetti, potrebbero salutare l'allegra compagnia e far cadere l'esecutivo. Ogni ora che passa le distanze aumentano, ogni fronte che si chiude se ne apre un altro, ogni richiesta di Renzi che Conte manda giù, se ne trova una nuova. Però la partita resta aperta. Il fatto stesso che sia stato convocato un gran consiglio di maggioranza piuttosto che un Consiglio dei ministri è un modo per allungare il brodo, per darsi almeno un altro giorno di tempo prima della rottura. Il problema è sempre lo stesso: Renzi vuole la testa di Conte e non si sa se, dopo, gliele ridarà.
Tacchino per tacchino, ragiona il presidente del Consiglio, tanto vale sfidare la sorte e presentarsi alle Camere, li si vedrà chi, nel mezzo della pandemia, ha «senso di responsabilità» nei confronti del Paese. Una mossa ad alto rischio - basta pensare al noto precedente di Romano Prodi - alla quale il Pd si è messo di traverso: se pure la sfangasse, l'avvocato pugliese si consegnerebbe all'instabilità cronica e alla paralisi definitiva. Senza contare che una sconfitta in Aula cancellerebbe ogni possibile mediazione per un Conte ter. «No a salti nel buio, l'alleanza non può trasformarsi», ripete Nicola Zingaretti. Il M5s poi è terrorizzato: se si scivola davvero verso le urne, due terzi dei suoi parlamentari dovranno trovarsi un lavoro.
Per non parlare del capo dello Stato, contrarissimo all'operazione Responsabili. Al di là dei dubbi sulla contabilità, per Sergio Mattarella c'è un dato politico dal quale non si può prescindere. Se cambia la maggioranza, il premier deve dimettersi e salire sul Colle. E sarà molto difficile che una coalizione arcobaleno raccolta in Parlamento corrisponda ai requisiti di «omogeneità e coesione sul programma», una condizione che il capo dello Stato considera indispensabile per dare il via libera a una nuova formula di governo. Litigano già adesso, si chiedono, come potrebbe un'armata Brancaleone gestire i miliardi per la ricostruzione? Servirebbero prove concrete, impegni scritti. E anche per il rimpasto, a meno che non si tratti di un mini ritocco, la strada passa per il Quirinale. Al punto in cui siamo, visto che le elezioni non le vuole nessuno, meglio lavorare per una crisi pilotata.
E sotto i toni alti dello scontro, al di là della posizione ufficiale del Nazareno «o Conte o le urne», gli ambasciatori del Pd sono impegnati nell'ultima mediazione, l'estremo tentativo che salvi la
faccia a tutti e porti al Conte ter. Uno «strappo controllato», così lo hanno definito, con il premier che si presenti alle Camere per un'informativa senza voto, per poi salire sul Colle. Ma i margini si stanno chiudendo.
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