La Nutella non piace agli ayatollah. E la bandiscono dal vocabolario: macchia la purezza della lingua persiana. I luminari dell'Accademia della lingua e della letteratura di Persia la loro fatwa glottologica l'hanno emanata con tanto di ordine scritto indirizzato a tutti i comandi di polizia, in particolare quelli attivi nella capitale Teheran, negli ultimi tempi lambita dai venti occidentali del consumismo. E senza troppo arzigogolare hanno sentenziato: via dalle strade le sempre più numerose insegne che reclamizzano i «Nutella bar». Perché? Forse i bar, evocatori del consumo di alcol, sono di per sé icona di diaboliche trasgressioni da sanzionare anche con la cacciata dai dizionari del commercio?
Di sicuro i famosi barattoli al cacao nocciolato di colpe sembrano non averne: non è mai stata messa in discussione la liceità spirituale del loro consumo. Neppure sembrano rilevare ragioni commerciali: la gran parte dei locali colpiti dall'editto linguistico si limita ad usare autonomamente il marchio per indicare alla clientela la possibilità di consumare prodotti al gusto di Nutella. Ciononostante, per gli arguti accademici la creatura delle industrie dolciarie di Alba pare rappresentare un pericolo, ancor più insidioso di un esercito in armi, perché più subdolo e capace (a loro dire) di riuscire in ciò in cui nei secoli sanguinose guerre armate hanno fallito: incrinare la saldezza del plurimillenario sistema culturale persiano.
Il ragionamento prende le mosse da un principio consolidato: in Iran è vietato l'uso di parole straniere nelle pubblicazioni, allo scopo di preservare la purezza e l'integrità dell'idioma patrio. Sul rispetto della norma dal 1935 vigilano i dotti dell'Accademia, istituzione controllata dal governo, che annovera tra i suoi membri figure di primo piano del panorama culturale iraniano e che ha visto alternarsi alla presidenza personaggi del calibro di Hassan Habibi (già vicepresidente della Repubblica islamica tra il 1989 ed il 2001) e Gholam Ali Haddad-Adel, consuocero della guida suprema Ali Khamenei ed attuale portavoce del Majlis, il parlamento iraniano. Più d'una seduta del consiglio accademico, si racconta, sarebbe stata dedicata proprio a quella crema gianduia dal nome ormai italiano ma, ironia del destino, nato per nazionalizzazione del termine inglese nut, l'omonimo britannico delle nocciole nostrane, che nei primi anni Sessanta del secolo scorso i Ferrero decisero di trasformare con l'aggiunta di un suffisso che lo rendesse italico e dolce pure foneticamente. E come ogni forma di dolcezza, anche tentatore.
I custodi dell'integrità filologica iranica sono passati ai divieti dopo aver constatato che la loro proposta di normalizzare e riconvertire - persianamente parlando - la Nutella in «pane speciale con cioccolato» era stata allegramente ignorata, al pari delle formule suggerite per dare sembianze filologicamente islamiche al fax e al computer: il primo ribattezzato durnegar (che vuol dire «scrittura da lontano»), il secondo rayaneh (letteralmente: macchina organizzatrice). Identici risultati ma innegabilmente con qualche successo in più - aveva ottenuto l'Accademia dei Lincei: nel 1940 una commissione apposita s'incaricò di esaminare i singoli termini stranieri.
Fu così che gli italiani si ritrovarono a far colazione con la brioscia, a bere coccotelli mescolati nello scotitoio (cocktail shakerati), a tifare per l'Ambrosiana (così era stata denominata l'Inter). Non andò bene. Né al progetto di italianizzazione, né al fascismo. Per gli ayatollah un precedente che non lascia ben sperare.
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