Senza neanche un giorno di sosta, Giuseppe Conte continua la corsa verso il suo personalissimo Papeete. Ormai da settimane, infatti, il leader del M5s ha deciso di dismettere il profilo da ex premier e si è buttato anima e corpo in una vera e propria crociata contro Mario Draghi. Un'offensiva su tutti i fronti, a partire dal delicatissimo tema dell'invio di armi in Ucraina. Eppure, nonostante la complessità della questione e le sue possibili ricadute, l'autoproclamato avvocato del popolo va avanti da giorni a giocare sul filo dell'equivoco pur di poter solleticare quella parte di elettorato che - banalizzando - è contrario alla linea atlantista e teorizza la via pacifista senza se e senza ma. Conte, infatti, insiste sulla necessità che Draghi si presenti davanti alle Camere per un passaggio parlamentare di trasparenza e che lo legittimi su una scelta così decisiva come l'invio di forniture militari a Kiev. Lo fa da giorni, ancora ieri con una diretta Instagram di oltre mezzora. Nella quale ha nuovamente accusato il premier di comprimere di fatto le facoltà del Parlamento e di imporre le sue decisioni al Paese. «Sono meravigliato non sia venuto alle Camere prima del suo viaggio a Washington e sorpreso che nessuna altra forza politica si sia associata a questa richiesta», la butta lì candidamente Conte. Condendo il tutto con una spruzzata di immancabile populismo: anche se è Draghi è atteso martedì alla Casa Bianca, il Parlamento può anche «riunirsi di domenica».
Insomma, è tutta colpa di Draghi. O, in alternativa, dei partiti che non seguono il M5s nel suo ergersi a presidio della democrazia parlamentare. In ultima istanza, dei parlamentari lassisti, che preferiscono farsi la domenica a casa. Questo, almeno, vorrebbe la propaganda grillina. Che, mai come in questa ultima settimana, è avulsa dal dato fattuale. Conte lo ha rimosso e non ne fa menzione neanche una volta, ma il Parlamento ha già votato il primo marzo - praticamente all'unanimità - una risoluzione che autorizza il governo a inviare materiale bellico a Kiev fino al 31 dicembre. Ed è per questo che nessuno forza politica si è «associata» alla richiesta dell'ex premier. Perché il voto c'è già stato. E tutti, compreso il M5s, si sono espressi a favore. Poi, certo, si può legittimamente cambiare idea, o perché muta lo scenario o perché si modificano le convinzioni. Ma bisognerebbe avere l'onestà di dirlo chiaramente, assumendosi le proprie responsabilità. Conte, invece, preferisce lasciare intendere che in Italia sia in corso una sorta di golpe bianco per inviare le armi all'Ucraina. Con buona pace non solo della verità ma pure della serietà. Per non parlare del profilo istituzionale che ci si aspetterebbe da chi, come lui, ha guidato Palazzo Chigi. Non a caso, senza troppo girarci intorno, il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova lo definisce «un irresponsabile».
D'altra parte, Conte non riesce proprio a resistere alla tentazione di smarcarsi. E se non nei modi, certamente nei toni inizia a ricordare quel Matteo Salvini che tra maggio e agosto del 2019 cannoneggiava un giorno sì e l'altro pure il governo guidato proprio dall'autoproclamato avvocato del popolo. Oggi, infatti, in una sorta di nemesi al contrario è Conte che si sta lentamente ritagliando quel ruolo con Draghi. Che attacca a 360 gradi. Sulla guerra alla vigilia del viaggio a Washington, ma pure sul Dl aiuti («si è consumato un ricatto») e sulla Rai. Tema, quello della tv di Stato, che lo accalora parecchio, tanto da evocare la «censura» e sbattere ripetutamente la mano sul tavolo. Ma la vera perla è il «no» al termovalorizzatore di Roma: dopo cinque anni di gestione Raggi dei rifiuti capitolini non è certamente il terreno migliore su cui confrontarsi.
La distanza con Draghi, insomma, è così siderale da non prevedere sconti. Conte affonda i colpi sull'ex Bce per raccogliere qualche voto in più, pescando peraltro anche in quella parte dell'elettorato dem storicamente critica verso la Nato. Non è un caso che Enrico Letta sia di molto irritato con il leader del M5s, tanto che da qualche settimana si è tornati a ragionare su una riforma elettorale in senso proporzionale.
Ma la benzina di quello che rischia di diventare un braccio di ferro permanente è soprattutto il fatto che i due - per usare un eufemismo - si sopportano a fatica. Una storia lunga, che racconta visioni diverse degli equilibri geopolitici globali e incomprensioni note - e meno note - sui servizi di sicurezza di casa nostra.
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