Quel pezzo di Occidente ancora prigioniero dei russi

Nei primi anni Cinquanta del Novecento, quando l'impero sovietico in Europa orientale si fu consolidato, si cominciò a dire in Occidente che "la Siberia cominciava al Checkpoint Charlie"

Quel pezzo di Occidente ancora prigioniero dei russi
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Nei primi anni Cinquanta del Novecento, quando l'impero sovietico in Europa orientale si fu consolidato, si cominciò a dire in Occidente che «la Siberia cominciava al Checkpoint Charlie».

La repressione staliniana aveva spazzato via non solo ogni forma di reale opposizione politica, ma anche la libertà di espressione artistica, giornalistica e culturale in senso lato. Il risultato fu che fra i tedeschi dell'Est, i polacchi, i cecoslovacchi, gli ungheresi, i romeni e giù giù fino ai Balcani comunistizzati si sviluppò un'abilità a dissimulare i loro pensieri in pubblico molto simile a quella degli abitanti della «prigione dei popoli» sovietica. Da allora e fino al crollo dell'impero nel 1989, chi viaggiava in quei Paesi ne poteva ricavare un'impressione di omogeneità nel grigiore e molti finivano col credere alla propaganda sovietica secondo cui il cosiddetto mondo slavo era una naturale appendice di quello russo, destinata a subire l'inclusione in una sua zona d'influenza.

Niente di più falso, come dimostrarono le vicende storiche dell'Ottantanove e degli anni successivi, con la libera ed entusiastica adesione di quei popoli al mondo occidentale cui erano stati strappati. Un mondo che era anche e soprattutto europeo, e al quale Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia e Romania appartenevano a pienissimo titolo: parliamo dunque anche di vicende culturali, oltre che di quelle umanissime delle persone che ci vivevano. Nel suo prezioso breve saggio Un Occidente prigioniero (scritto nel 1983, quando nessuno immaginava l'imminente collasso dell'Urss e del suo impero), Milan Kundera confutò da par suo l'esistenza stessa di un «mondo slavo». L'autore praghese della Insostenibile leggerezza dell'essere chiarì che da sempre per un ceco, un polacco o un ungherese l'idea di Europa aveva tutt'altra valenza (spirituale e di appartenenza) che per un russo, e spiegò che «nel dopoguerra si sono delineate in Europa tre situazioni: quella dell'Europa occidentale, quella dell'Europa orientale e quella, più complessa, della parte d'Europa situata geograficamente al centro, culturalmente ad Ovest e politicamente a Est».

Quella parte d'Europa era «l'Occidente prigioniero» dei colonialisti russi. Già nel 1844, osserva Kundera citando lo scrittore ceco Karel Havlìcek, «ai russi piaceva definire slavo tutto ciò che è russo, in modo da poter definire russo tutto ciò che è slavo». Ma nella realtà i rapporti tra polacchi e russi non sono mai stati altro che una lotta senza fine, e a dispetto della parentela linguistica i cechi mai hanno avuto un contatto diretto con la Russia prima dell'occupazione del 1945: un'appartenenza genuina a un mondo comune non c'è mai stata (ungheresi e romeni, poi, non sono nemmeno slavi).

È ai confini orientali dell'Occidente, dove la natura imperialistica della Russia è stata conosciuta e subita, che la si percepisce per ciò che è: un anti Occidente, una civiltà «altra». E tuttavia, statene certi, di tutto questo nulla sa chi parla dell'opportunità di «fare la pace con Putin» regalandogli la sovranità sull'Ucraina come già si è preso quella sulla Bielorussia.

E statene altrettanto certi: quando Putin comincerà a dire che «per la sicurezza della Russia» tutta l'Europa centro-orientale dovrebbe tornare sotto il suo tallone, i soliti noti si precipiteranno a dargli ragione, dall'abisso della loro pericolosissima ignoranza.

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