Israele farà «tutto il necessario» per garantire che Hamas non sia più una «minaccia esistenziale». Poi, si ragionerà sul dopo-Hamas a Gaza e sulla resa dei conti politica interna. Ehud Barak, nel corso di un colloquio organizzato da Foreign Policy, ripete più volte l'espressione «whatever it takes», convinto della «superiorità militare» di Israele, anche nel caso dovessero aprirsi altri fronti di guerra al confine col Libano, nel Golan o in Cisgiordania.
«Israele è forte e ha dietro gli Stati Uniti con un peso impressionante e senza precedenti», dice. Quanto al futuro di Benyamin Netanyahu, additato come il primo responsabile del disastro del 7 ottobre - la «sconfitta più dura subita da Israele in 75 anni» - per l'ex premier laburista Barak (dal 1999 al 2001), il militare più decorato nella storia dello Stato ebraico, c'è ancora tempo. «Non sono sicuro che questo sia il momento giusto e che sia appropriato discuterne. In un Paese normale, si sarebbe dimesso la mattina dell'8 ottobre. Ma in questo senso, Israele non è un Paese completamente normale. Sappiamo che il 70% degli israeliani si aspetta che si dimetta». Ma ora, bisogna concentrarsi sugli obiettivi, che sono «eliminare le capacità militari e di governo di Hamas nella Striscia di Gaza. Non potevano essere raggiunti solo con i bombardamenti aerei. Per questo abbiamo dovuto impiegare migliaia di soldati sul terreno». L'invasione di terra, spiega, è complicata da «quattro vincoli: gli ostaggi; il rischio del coinvolgimento di Hezbollah in Libano, di cellule dormienti in Cisgiordania o di milizie sciite in Siria appoggiate dall'Iran; il terzo vincolo è il diritto internazionale, verso cui ci impegniamo, sapendo per esperienza che il sostegno universale nei nostri confronti si eroderebbe velocemente e la legittimità dell'intera equazione verrebbe messa in discussione; e infine, anche quando raggiungeremo questi obiettivi e la Striscia sarà stata liberata da Hamas, noi non intendiamo rimanere lì per i prossimi 10 o 20 anni. A chi passare il testimone? A quale entità?».
Al riguardo, Barak prosegue il suo ragionamento e si dice «convinto che il gabinetto di guerra di Israele, gli americani e probabilmente qualche altra capitale della regione hanno già avuto contatti su cosa fare dopo». La soluzione possibile, dice, sarebbe quella di «una forza multinazionale, magari guidata dall'Egitto», che ripristini l'autorità dell'Anp. Nel mezzo, tra la nuova fase della guerra e il suo esito, c'è la sorte dei civili di Gaza. «Stiamo facendo del nostro meglio per minimizzare i danni collaterali. Hamas è responsabile sia dei massacri del 7 ottobre in Israele che dei rischi per la vita dei civili di Gaza». Sono 750mila le persone che si sono spostate nel sud della Striscia. «Ne rimangono 300mila. Non perché non vogliano andarsene, ma perché Hamas gli impone di restare, per usarli come scudi umani». Guardando al futuro a medio termine, per Barak, «l'unica soluzione praticabile per Israele è la soluzione dei due Stati». Ma il governo di Netanyahu «fa di tutto per bloccarla», condizionato «dall'estrema destra messianica e razzista».
E tuttavia, il destino dell'attuale premier sembra ormai segnato. «Il tentativo di Netanyahu di trasformare Israele in una democrazia illiberale è fallito. Siamo ancora una democrazia e solo il processo democratico può portare a un cambiamento politico».
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