A Palazzo Chigi si dice che Matteo Renzi sia rimasto molto colpito dalle immagini di David Cameron che davanti all'ingresso del numero 10 di Downing Street annuncia le dimissioni da primo ministro. Travolto da suo stesso azzardo, il più giovane premier della storia britannica esce di scena nel peggiore dei modi, con l'incubo di passare agli annali come colui che ha scompaginato l'Europa e spaccato in due la stessa Gran Bretagna. Dimissioni ineluttabili, dunque. Che però devono aver fatto suonare un campanello d'allarme in Renzi. Anche lui è il più giovane presidente del Consiglio della storia italiana e anche lui, come Cameron, ha deciso di giocarsi il tutto per tutto su un referendum. Una sorta di all in, che in caso di sconfitta difficilmente può portare ad un epilogo diverso da quello inglese.
Non che i due quesiti siano paragonabili, certo. Perché la Brexit avrà conseguenze su tutta l'Europa e comunque andranno le cose nei prossimi anni cambierà l'essenza stessa dell'Ue. Il referendum sulle riforme costituzionali, invece, per quanto importante, avrà ricadute dirette e concrete solo sull'Italia. Il punto, però, è la scelta di investire tutto su un appuntamento elettorale che dovrebbe essere giudicato nel merito e non diventare il teatro di uno scontro squisitamente politico. Non è un mistero, infatti, che nel 2013 Cameron abbia deciso di indire il referendum anche per strizzare l'occhio alla ventata di antieuropeismo che stava prendendo piede nel partito dei Tories, una scelta che il Financial Times è arrivato a definire «l'atto più irresponsabile mai fatto da un governo britannico». Così come Renzi ha scelto di investire il suo futuro politico sul referendum costituzionale per cercare di districarsi da un momento di grandissima difficoltà politica e rinviare eventuali rese dei conti a dopo l'estate. Come il 40,8% portato a casa dal Pd alle europee del 2014 era stato letto come un'investitura della leadership di Renzi, allo stesso modo la batosta rimediata alle amministrative non può che essere vista nel senso opposto. Il Pd dell'era Renzi, infatti, è riuscito nell'impresa di consegnare ai Cinque stelle città dove governava del calibro di Roma e Torino, a Napoli neanche è arrivato al ballottaggio e a Milano ha tenuto il Comune per poco più di 17mila voti. Una débâcle. Che per un premier che ha il peccato originale di non avere un'investitura popolare poteva essere fatale. Non lo è stata, forse, proprio perché Renzi - consapevole che il risultato delle urne sarebbe stato pessimo - aveva già dato appuntamento a tutti al referendum («se perdo lascio la politica»).
Il voto britannico, però, ha aperto un squarcio. Perché è chiaro che l'onda populista è più forte di quanto si pensava e ora è lo stesso Renzi a temere di finirci sotto. Non è un caso che uno dei principali sponsor politici del leader del Pd, Giorgio Napolitano, ieri invitasse a «restituire neutralità» al nostro referendum.
Se diventa, come ha voluto il premier, un voto pro o contro Renzi il rischio di finire come Cameron è alto. Pare che lo abbiano capito anche a Palazzo Chigi, tanto che la tentazione adesso sarebbe quella di far slittare la consultazione referendaria da ottobre a dicembre.
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