Renzi vuol piazzare Errani e riparte il toto-rimpasto

Per demolire quel che resta della corrente bersaniana, il premier intende portare a Roma l'ex governatore condannato. Si parla dell'Economia, al posto di Legnini

Renzi vuol piazzare Errani e riparte il toto-rimpasto

Dopo la cena di venerdì sera a Medolla, nel modenese, a Roma si è riaperto il toto-rimpasto.

È bastata una frase sibillina del premier rivolta a Vasco Errani per far ripartire il tam tam nel Palazzo. Matteo Renzi era lì per accompagnare Stefano Bonaccini nella sua prima uscita ufficiale di campagna elettorale, da candidato alla presidenza dell'Emilia Romagna. Una manifestazione nell'azienda Menù, risorta dopo il terremoto, e poi una cena elettorale. E quando in sala è entrato l'ex governatore dimissionario Vasco Errani, il premier è sceso dal palco ed è andato ad abbracciarlo platealmente: «Non credere di essertela cavata così Vasco, avremo bisogno di te a Roma, per il partito e per il Paese», gli ha detto, davanti ai cronisti. Ed è partita la standing ovation. Ieri a Roma non si parlava d'altro. Palazzo Chigi ovviamente non commentava, ma nel Pd si facevano scommesse: «Errani al Nazareno? Non credo, sarebbe sprecato: è un uomo di governo», spiega un membro renziano della segreteria. Che non nasconde la valenza anche interna della cosa: «Farlo entrare nell'esecutivo sarebbe il segnale che la “Ditta” bersaniana è stata definitivamente smontata e che, dopo Poletti e Bonaccini, tutta l'Emilia è diventata renziana». L'ipotesi che circola con più insistenza è quella che Errani vada a sostituire Giovanni Legnini al ministero dell'Economia, nel ruolo chiave di trait d'union tra Palazzo Chigi e il Mef. Ma chi conosce bene l'ex governatore avanza un dubbio: «Vasco sta aspettando le motivazioni della condanna d'appello sul caso Terremerse per fare la sua battaglia in Cassazione, se si è voluto dimettere nonostante Renzi gli dicesse di andare avanti, dubito che voglia entrare nel governo prima della fine del processo».

In attesa del rimpasto, nel Pd si guarda al passaggio del Jobs Act alla Camera e al «caso» dei dissidenti: i tre che hanno votato in dissenso al Senato e quelli che potrebbero imitarli a Montecitorio se, come assai probabile, verrà chiesta anche lì la fiducia. Renzi non vuole certo sanzioni esemplari per i reprobi, facendone dei martiri. Ieri anche Walter Tocci, che ha annunciato le dimissioni da senatore (che verranno peraltro respinte dall'aula, com'è prassi), lo invitava a «smentire i suoi pretoriani che invocano espulsioni». Ma il premier non ha alcuna intenzione di lasciar cadere la faccenda, e anzi ne farà un punto centrale del suo intervento alla Direzione del 20 ottobre, dedicata proprio al Pd e alle sue regole. «In un partito si discute prima, poi si decide e ci si attiene alle scelte della maggioranza», dice il premier, sottolineando che «così abbiamo fatto noi quando eravamo minoranza: basti ricordare il caso di Giachetti e della sua battaglia per la riforma del Porcellum», quando il premier Letta e il segretario Epifani ordinarono di votare contro la mozione pro-Mattarellum sostenuta dai renziani per sbloccare l'impasse sulla legge elettorale. Ora che la maggioranza interna è cambiata, la sinistra non può pretendere di usare «due pesi e due misure».

Su come vuole cambiare il Pd per ora Renzi non scopre le carte. Giorgio Tonini, cui il premier ha affidato una delle relazioni alla Direzione, spiega che la polemica sugli iscritti era infondata e pretestuosa: «Alla fine, come ha detto Guerini, saranno quanti gli anni scorsi».

Ma le «operazioni nostalgia» su un modello di partito ormai superato vanno evitate: «Dobbiamo piuttosto valorizzare lo straordinario patrimonio degli elettori delle primarie, una riserva di sostenitori che nessun altro partito ha».

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