Milano Una «sceneggiata» «totalmente inappropriata», una cosa «mai vista», un «errore marchiano». Compie un anno oggi il primo linciaggio contro Attilio Fontana, ed è una ricorrenza che dovrebbe far impallidire tanti. Il governatore lombardo fu demonizzato per la scelta (dovuta) di indossare la mascherina. Ora si prende una amara rivincita: aveva totalmente ragione lui, quasi da solo. Eppure fu fatto bersaglio di una campagna ostile scriteriata. Massacrato dalla sinistra chi non voleva fermare le città, delegittimato da esperti tanto confusi quanto assertivi, deriso da opinionisti e influencer. Sono gli stessi: allora si divertivano a fare battute sulle precauzioni, sui timoni, sulla «paura degli involtini primavera», poi sarebbero diventati i fustigatori massimi degli italiani accusati di non avere abbastanza paura. Un enorme abbaglio per cui nessuno ha chiesto scusa.
«Mi ero reso conto della gravità di quello che stava per succedere - ha rivelato ieri Fontana - perché avevo esaminato con attenzione le dichiarazioni del presidente della Cina». Fontana aveva capito che la cosa «non si poteva prendere sottogamba». «Non era una prospettiva difficile - minimizza oggi - eppure si sono scatenati contro di me, come una parte dell'opinione pubblica si è scatenata contro la Lombardia, in maniera un po' gratuita».
Era il 26 febbraio 2020, 5 giorni dopo il paziente 1, una sera delle più drammatiche fra tante giornate nere segnate dal Coronavirus come allora si chiamava. Una conferenza stampa fu prima rinviata e poi annullata per «alcune verifiche sanitarie su un dipendente regionale». Adesso sta bene, ma quel giorno era risultata positiva. Si trattava di una stretta collaboratrice di Fontana e il governatore, pochi muniti prima delle 22, con una breve diretta video annunciò la sua quarantena: «Mi atterrò a quelle che sono le prescrizioni date dall'Istituto Superiore di Sanità». E alla fine indossò una mascherina chirurgica, oggi normale per milioni di persone. «Quando mi vedrete così non spaventatevi» disse.
Apriti cielo. Quel messaggio che voleva essere trasparente e - per quanto possibile - anche rassicurante, fu distorto. E quella scelta di prudenza fu letteralmente fatta a pezzi. «Totalmente inappropriata» la definì il consulente ministeriale Walter Ricciardi in un tripudio di applausi televisivi. «Le mascherine alla persona sana non servono a niente» avvertiva. Subito gli faceva eco l'incauto Danilo Toninelli, 5 Stelle: «Assolutamente da evitare» scandiva esaltato con tono professorale. Ma si scatenò anche Carlo Calenda («Quello gioca con la mascherine - diceva il leader di Azione - in una situazione del genere è delittuoso»). «Ma l'avete mai visto in un Paese normale un governatore di Regione che si mette lì con la mascherina?» chiedeva con la consueta sicumera Andrea Scanzi. «Trova le differenze», recitava uno sciagurato «volantino» del Pd ancor oggi visibile in rete. Raffigurava da un lato Fontana con la mascherina e dall'altro il sindaco Giuseppe Sala illuminato da un sorriso sornione e ottimista, e dal motto «Milanononsiferma». Il capogruppo lombardo Fabio Pizzul dichiarò che Fontana aveva «amplificato in modo incalcolabile i danni economici dell'emergenza»), il consigliere Pietro Bussolati parlò di «errore marchiano». E intanto i sindaci dem mettevano a punto iniziative per aprire i musei «contro la paura», o per promuovere le visite in città o per «abbracciare i cinesi». E il segretario Nicola Zingaretti sbarcava sui Navigli per l'aperitivo. «Il virus è il razzismo» diceva un partito intero. «La sola mascherina è la cultura» sentenziavano le cosiddette «Sardine». Giudizi affrettati, ideologici, superficiali.
Gigantesche cantonate firmate da chi non avevano capito niente di ciò che stava accadendo e dava lezioni. Avrebbero continuato a farlo anche dopo, in senso opposto. Continuano a farlo oggi e lo faranno probabilmente anche quando si tratterà di scrivere (o meglio riscrivere) la storia del Covid in Italia.
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