Mi si nota di più se vado e mi metto in un angolo, prima che mi mettano all'angolo... O se non vado e mi metto sull'Aventino? E non mi converrà sedere presto in riva all'Arno, chè di qui tanto, e tanti, passare dovranno?
Questi e altri pensieri irriferibili scorrevano ieri nella mente del leader uscente del Pd, Matteo Renzi, barricato nella sua nuova casa fiorentina a cento passi da Ponte Vecchio. Ogni passo, una pena.
Le ultime provenienti da «intimi» di Matteo riferirebbero di una lieve propensione per esserci, alla Direzione nella quale verrà finalmente letta la sua lettera di dimissioni; diventata talmente fantastica, nei giorni scorsi, da aver fatto sospettare più d'uno che neppure esistesse. Ma il presidente Orfini ha invece rassicurato tutti ieri in tv dalla Annunziata: il segretario resterà a casa, la lettera «molto semplice nella quale prende atto del risultato e si annunciano le dimissioni la leggerò io».
Ciò non toglie, però che l'arcinemico Michele Emiliano ci abbia costruito sopra una storia degna di Cattivik o altri geni del male. «Le sue dimissioni mi hanno sorpreso - andava insistendo ieri -... Lui studia una rivincita, sono sicuro. Ha fatto una legge elettorale dove vince chi arriva terzo in un sistema tripolare. Lui ha vinto, in realtà. E può determinare il governo». Come spesso capita, il governatore pugliese esagera, ma qualcosa di vero ci dev'essere, considerata la veemenza con la quale i seguaci del segretario stanno chiudendo la porta a ogni possibilità di collaborazione, persino istituzionale, con Di Maio e compagni. Sentirsi ago della bilancia li sta corroborando: al punto da essere i più convinti (e paradossali) sostenitori di un governo M5s-Lega, certi che «così ci divertiremo a vederli andare a sbattere». La linea dettata dal segretario uscente trovava come sempre nel presidente Orfini uno dei più zelanti esecutori: «Non esiste in natura un accordo tra Pd e M5s», arrivava a giurare il popolare Sancho Panza. Dimenticando come nel 2013 fossero stati loro, in ginocchio, a chiedere un appoggio. Orfini portava a corredo della sua tesi i voti espressi dai grillini sui provvedimenti della scorsa legislatura: il fatto che il più delle volte abbiano fatto «massa critica» con la Lega, secondo Orfini, dimostrerebbe questa bassa consonanza. In una realtà meno ipocrita e infantile, però, questo si chiama solitamente «fare opposizione». In ogni caso, se è vero che «Renzi non può essere l'unico capro espiatorio» (no, ci sono anche gli altri: a cominciare da Orfini), è altrettanto chiaro che con questa linea di totale chiusura il Pd si è per il momento tirato fuori da tutti i giochi, e non dovrebbe toccar palla nelle votazioni per le presidenze delle Camere. «Legittimo che vadano ai vincitori: Lega e M5s», gongolava Orfini. E le cose così andranno, sempre che la tenuta dei gruppi parlamentari del Pd regga alle varie sirene e alle «triangolazioni» con i Palazzi che spingono verso soluzioni più «responsabili» per il Paese: Quirinale e Palazzo Chigi.
Nella Direzione di oggi si comincerà a capire che cosa sta producendo il gran rimestio tra correnti. Sembra scontato che il vice Martina si assumerà l'onere di traghettare il Pd verso l'Assemblea nazionale. Ma, nella guerra totale che si è scatenata, neppure la data dell'Assemblea passerà liscia: Renzi vorrebbe bruciare i tempi, prima che i tempi brucino lui.
Molti sono i renziani «impuri» pronti a cambiar cavallo e ribaltare la maggioranza esistente in quell'assise. La data avanzata ieri da Orfini, il 5 aprile «consultazioni permettendo», perciò, sarà oggetto di approfondito dibattito.
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