Scoppia la faida nel M5s sull'immunità a Salvini

Il caso Diciotti fa esplodere le diverse anime grilline. Fico: «Io al suo posto mi farei processare»

Scoppia la faida nel M5s sull'immunità a Salvini

Più di una spina nel fianco. Per i Cinque Stelle il caso Diciotti, in assenza di una chiara indicazione di voto da parte del leader Luigi Di Maio, sta assumendo i contorni di una faida interna. Del resto quello dell'immunità è un tema cruciale per i pentastellati e un eventuale no alla richiesta di autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini sarebbe per molti, soprattutto per l'ala ortodossa, un tradimento ai valori fondanti del Movimento.

È così che la pensa Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia, rappresentante di quella parte del M5s che non vuole cedere ai compromessi e che non vede di buon occhio chi, tra i colleghi grillini, tifa per il no all'autorizzazione. C'è aria di resa dei conti e il suo pensiero ha suscitato più di una polemica, tanto da spingere i dem ad esprimergli solidarietà per essere finito lui sotto processo al posto di Salvini. Nelle parole del senatore pentastellato Michele Giarrusso, capogruppo della Giunta per le immunità, si intravede addirittura una velata minaccia nei confronti della posizione intransigente del presidente della Commissione antimafia: «Ognuno ritiene quello che crede su questa vicenda e se ne assumerà la responsabilità». Il defilamento di fatto di Di Maio - che ieri, vago come sempre, ha fatto sapere che il M5s deciderà dopo aver letto le carte - e la possibilità che al gruppo in aula possa essere lasciata libertà di coscienza, non fa che alimentare tensioni tra i «duri e puri» che ritengono non si debba mai dire no alla magistratura e chi sarebbe disposto ad uno strappo a uno dei principi fondanti del Movimento pur di evitare uno scossone al governo. Il presidente della Camera Roberto Fico cerca di rimanere al di fuori del dibattito, ma ribadisce un concetto già espresso. Lui non si sarebbe sottratto al processo: «Se fosse capitato a me, avrei saputo cosa fare», taglia corto. Salvini invece, torna ad affidarsi al Senato. E, forte della blindatura del governo che ha fatto quadrato intorno a lui condividendo le decisioni sullo stop allo sbarco dei migranti, insiste con la linea dura: «Sull'immigrazione gli italiani sanno come la penso: se devo essere processato perché ho azzerato gli sbarchi lo rifarò, non cambio il mio atteggiamento. Il Senato deciderà».

Il presidente della Giunta per le immunità del Senato, Maurizio Gasparri, continua intanto a pizzicarsi a distanza con Pietro Grasso, segretario della stessa Giunta. Quest'ultimo polemizza con Gasparri per aver acquisito insieme alla memoria di Salvini, anche quelle del premier Conte e dei ministri Di Maio e Toninelli, con cui il governo si assume la corresponsabilità del «sequestro» dei migranti. Una posizione che, secondo Grasso, avrebbe comportato «il dovere di trasmetterle al Tribunale dei ministri di Catania», pena la commissione di un'omissione di denuncia.

Gasparri, che procede con cautela perché quello della Diciotti è un caso senza precedenti, ha replicato che farà quanto previsto dalle regole: «La mia conduzione dei lavori è ispirata in maniera evidente, e da tutti riconosciuta, al rispetto della Costituzione». E in ogni modo, anche se le carte dovessero essere rimandate a Catania, ciò non impedirebbe alla Giunta di procedere nel frattempo contro il solo Salvini per valutare in un secondo momento eventuali altre posizioni.

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