Ci è ricascato, Beppe Sala. Si è rimesso a fare il sindaco-influencer. In un momento di tale portata drammatica, per l'ennesima volta, il primo cittadino di Milano non ha saputo trovare di meglio da fare che la fronda alla Regione, un controcanto su uno spartito retorico facile facile da suonare.
Pretesto di ieri, la decisione con cui il governatore Attilio Fontana ha repentinamente colorato di «arancio scuro» l'intera Lombardia, stabilendo la didattica a distanza per almeno 10 giorni. Colto il tema del giorno, il sindaco non ha perso l'occasione per lanciare un video-messaggio direttamente rivolto ai giovani, avvalorando l'opinione di quanti, a Milano, gli rimproverano un attitudine da opinionista social piuttosto che da politico e amministratore: un influencer con un buon riscontro in termini di like, come spesso gli capita (o forse gli capitava) ma con risultati politici da rivedere.
«Fate sentire la vostra voce» ha spronato gli studenti. Ha criticato i tempi della decisione, e va bene, e davanti alle agenzie ha contestato il metodo e lo «stile» della Regione. Ha parlato del «paradosso di una quotidianità costretta» e di una «rabbia comprensibile». Soprattutto ha sfoderato l'armamentario retorico cui dà voce quando si mette a dialogare con il «popolo di Greta». «Dire scuola per noi significa dire futuro» ha garantito. «Chi ha da pronunciare la parola definitiva su come ci avvieremo al futuro dovreste essere proprio voi giovani» ha aggiunto. «Vorrei abbracciarvi uno a uno - ha concluso - e dimostrarvi l'ammirazione e l'affetto che nutro per voi».
Bello, edificante, giusto, ma resta l'impressione di un sindaco fuori sincrono, di un sindaco che da un anno esatto non riesce più a trovarsi in sintonia con la città, che è costantemente fuori tempo, o fuori fuoco, come il protagonista di «Harry a pezzi» di Woody Allen, un personaggio in crisi artistica.
Troppo facile sarebbe ricordare un'altra volta il paradosso - quello sì clamoroso - di «Milano non si ferma», la campagna con cui Sala e il Pd rimproveravano a Fontana la volontà di chiusure (e poi la scelta di indossare la mascherina) rivendicando alla sinistra una spinta verso una «normalità» che allora era incauta e oggi appare incresciosa. No, non è solo quello. Ancora pochi giorni fa, Sala si è messo a commentare gli «assembramenti» sui Navigli come se la cosa non lo riguardasse. E alla vigilia della temuta terza ondata, Palazzo Marino ha riacceso Area C, incomprensibile omaggio al solito ambientalismo di maniera.
In passato Sala è stato anche bravo a «surfare» sull'onda di una Milano trendy e di successo, una Milano reduce da Expo che altri hanno costruito e lui ha ben gestito e ben rappresentato. Dopo, però, non ha più dato l'impressione di essere all'altezza di questa crisi, di sapersi caricare sulle spalle la città. Perfino la decisione di ricandidarsi è arrivata tardi. Non in ritardo sui tempi della campagna elettorale, anzi, ma tardiva agli occhi di una Milano piegata, deserta, disorientata come non mai dal Dopoguerra. Era un manager bipartisan di probabile estrazione liberaldemocratica.
Avrebbe potuto pendere a modello i grandi sindaci riformisti di Milano - come Carlo Tognoli, scomparso ieri - quelli che seppero guidare la città in passaggi altrettanto carichi di incognite e problemi. Non ha saputo farlo: ha preferito accreditarsi presso un certo conformismo di sinistra; una cosa alla moda, che può anche vincere ma non lascia il segno nella storia.
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