"Sinistra schiava del follemente corretto. Il dibattito culturale è molto debole"

Il viaggio del sociologo Luca Ricolfi tra le parole proibite, dall'insulto di Acerbi, ai cognomi "offensivi": "È più pericoloso della censura"

"Sinistra schiava del follemente corretto. Il dibattito culturale è molto debole"

Luca Ricolfi, 73 anni, è un sociologo e un politologo piemontese. Ha studiato all'università di Torino negli anni di fuoco della contestazione a cavallo tra i sessanta e i settanta. Si è laureato nel 1973 con Claudio Napoleoni, uno dei maestri nella politica economica della sinistra, braccio destro di Franco Rodano che era il consigliere prima di Togliatti e poi di Berlinguer. Ricolfi è sicuramente cresciuto nel mondo politico di sinistra. Da giovane ha lavorato nella FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici), occupandosi di nocività in fabbrica. Poi ha insegnato all'università (Sociologia e Analisi dei dati), ha studiato, ha scritto, ha collaborato con diversi quotidiani - La Stampa, Il Sole, il Messaggero, Repubblica - non s'è mai chiuso su posizioni ideologiche e conformiste, ha sempre nuotato contro corrente. Ha fondato, insieme a Piero Ostellino, la Fondazione David Hume, che si occupa di ricerca e analisi dei dati. Lo abbiamo interrogato - lui, uomo di sinistra e liberale - sul tema del politically correct e di come questa «moda» abbia finito per inquinare il dibattito politico libero.

Professore Ricolfi, lei avrà letto del caso Acerbi. Un giocatore dell'Inter che forse ha chiamato «negro» un giocatore del Napoli. Rischia dieci giornate di squalifica. Un provvedimento severo al quale si aggiunge il linciaggio di diversi giornali. Sbaglio se immagino che questo sia la conseguenza di un uso ormai ossessivo del politically correct?

«Sono contento di non seguire più il calcio da 30 anni, se no sarei in apprensione per la Nazionale. Quanto alla vicenda di Acerbi, ammesso che l'insulto ci sia stato, quel che mi colpisce non è che il giocatore venga punito, ma che per essere puniti si debba insultare un nero, e che qualcuno tiri fuori la discriminazione razziale, che è tutt'altra e più seria questione. Io sono contrario a stabilire una gerarchia di categorie protette, come i cultori del politicamente corretto tendono a fare. In una società liberale, un insulto è un insulto è un insulto è un insulto, per dirla con Gertrude Stein».

Le cito un altro caso. C'è un signore che di cognome si chiama «Finocchio», Facebook gli ha imposto di cambiare cognome perché offensivo. Il politically correct degrada nella barzelletta?

«Sì, tanto è vero che da un po' di tempo io preferisco parlare di follemente corretto».

Pare che l'algoritmo di Facebook sostenga che la storia delle bare di Bergamo, durante il Covid, sia un'invenzione. Ci si mettono anche gli algoritmi ad inquinare l'informazione?

«L'informazione è già inquinata alla fonte, per la faziosità di editori e giornalisti. Gli algoritmi si limitano a peggiorare la situazione, perché non hanno un autore-responsabile e, quando un autore c'è, spesso non è in grado di prevedere come l'algoritmo si comporterà».

Lei pensa che l'uso continuo del politicamente corretto amputi in qualche modo la complessità del dibattito politico e culturale?

«Per me il politicamente corretto è solo un'aggravante. Il vero problema è che il dibattito culturale è povero. Le inchieste giornalistiche raramente hanno la complessità di quelle anglosassoni. E i talk show sono atrocemente ripetitivi, anche nella scelta degli ospiti. Tempo fa, a Otto e mezzo, Mariana Mazzucato fece notare a una imbarazzata Lilli Gruber che, sulla BBC, un dibattito fra 4 giornalisti sarebbe inconcepibile».

Giorni fa un professore è stato invitato dall'Università a correggere una frase che lui aveva postato e che veniva considerata offensiva per le donne (la frase afferma la superiorità del maschio). Ma la frase non era sua ma era del massimo filosofo scozzese del 700, David Hume Rischiamo di mettere la cultura mondiale in mano ai censori?

«No, agli imbecilli. La censura, per quanto deprecabile, possiede una sua dignità intellettuale, il follemente corretto no».

Il politicamente corretto sta sostituendo il merito? E questa sostituzione può portarci alla fine dell'eccellenza?

«Ci ha già portato alla fine dell'eccellenza. Il politicamente corretto, in nome dell'inclusione, ha fatto crollare il livello degli studi».

Lei non crede che l'uso continuo dello spauracchio del razzismo, in un Paese dove il razzismo non c'è, diventi un elemento di distorsione della battaglia politica? Anche perché poi quando il razzismo c'è davvero - il padre di tutti i razzismi: l'antisemitismo - lo si nega?

«L'antirazzismo è partigiano e insincero, perché è selettivo, e a sua volta razzista. Pensiamo a quel che accade in campo progressista-femminista: al vertice le donne islamiche di Gaza, poi le donne islamiche normali, poi le donne italiane, poi le donne israealiane».

Lei è un uomo di sinistra. Non crede che il politicamente corretto sia un'arma usata esclusivamente dalla sinistra?

«Sì, ma proprio per questo è diventato una formidabile arma della destra contro la sinistra. Senza le follie della cultura woke, nessun Trump vincerebbe mai le elezioni».

La sinistra la usa per sostituire il suo sistema di valori che si è sfasciato?

«Più che altro, mi sembra che la usi per nutrire il suo senso di superiorità morale, quel complesso dei migliori che già venti anni fa avevo descritto in Perché siamo antipatici?»

La cultura del politicamente corretto è un freno alla libertà?

«Più che un freno alla libertà in generale, mi pare un freno alla libertà di pensiero e di espressione».

Il suo prossimo libro sbaglio o tratterà proprio di questo?

«Sì, si chiamerà Il follemente corretto, ma non so se farà più ridere o piangere».

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