L'Umbria blocca i test rapidi per diagnosticare il Coronavirus nelle strutture private e la Cgil, che ha guidato la battaglia contro i cattivi profittatori capitalisti, esulta col pugno alzato: «Missione compiuta! La salute viene prima del profitto». Visto l'enorme ritardo del sistema sanitario pubblico nello screening della popolazione attraverso tamponi e test, alcuni privati si sono infatti mossi per renderli disponibili a pagamento, e sono stati subito inondati di richieste da cittadini altrimenti abbandonati a se stessi nella confusione delle direttive governative (costate finora oltre 15mila morti). I test rapidi di massa, tra l'altro, sono uno dei motivi per cui il Veneto è riuscito finora a contenere il danno, seguendo una strada autonoma rispetto alle linee guida nazionali.
Una medaglia al merito dunque per i privati che sopperiscono così alle inefficienze e ritardi del pubblico? Macché, un'ispezione dei carabinieri del Nas e poi dell'Asl (risultato: nessuna anomalia riscontrata), sobillati appunto dalla Cgil in Umbria per bloccare l'attività di alcuni centri diagnostici privati. Tutto in nome di un principio socialista, o meglio chavista: «Non è pensabile che i test rapidi per il Coronavirus vengano effettuati a pagamento in strutture private, senza alcun criterio di selezione se non quello del portafoglio dei clienti» spiega il comunicato della Cgil Umbria. In sostanza il sindacato di Landini contesta il principio etico per cui i «ricchi» (cioè quelli che possono permettersi di spendere 70 euro) possano fare il test rapido e i poveri invece no. Meglio insomma ammalarsi tutti, ma in modo equo tra abbienti e meno abbienti, in attesa che il governo e le strutture pubbliche - con tutto il tempo dovuto, tanto che fretta c'è - si attrezzino per lo screening di massa. Il rischio, secondo la Cgil, non è infatti solo che «l'utilizzo del test rapido su larga scala possa comportare il venir meno delle misure di contenimento sociale», perchè alcuni soggetti risultati negativi al test rapido (non infallibile) potrebbero essere in realtà positivi e dunque circolare senza precauzioni. La cosa è inaccettabile da punto di vista morale, sostengono i sindacalisti: «C'è un'enorme questione etica, che in una fase come questa dovrebbe trattenere anche i più audaci dal fare soldi sulle paure e sulle fragilità delle persone». Guai se le strutture private mettono a disposizione un servizio che invece regioni e Stato centrale tardano a organizzare, per la Cgil è solo una condannabile volontà di «fare soldi». La Regione Umbria, nell'incertezza sul da farsi, ha sospeso tutto. Spiega il dg della sanità umbra, Claudio Dario: «Abbiamo ribadito la richiesta di indicazioni nazionali uniformi su come gestire queste ulteriori risorse del sistema, nessuno mette in discussione competenza e qualità fornita da questi laboratori, il punto è come si inserisce in una strategia complessiva». Insomma sarebbero utili, ma finché da Roma non arrivano direttive chiare resta tutto fermo. Altre regioni, come appunto il Veneto, sono andate avanti sui test senza aspettare i tempi burocratici del ministero della Salute. Alcune re regioni temporeggiano, altre hanno acquistato milioni di kit, la Toscana ha aperto ai test in strutture private ma solo quelle convenzionate, le altre «le faremo sequestrare» dice il governatore Rossi. La domanda da parte della gente, confermano gli operatori, è altissima («Assurdo lo stop, abbiamo tantissime richieste» spiega il titolare del laboratorio «Chiriofisiogen» a Perugia).
I privati sarebbero molto utili a smaltire l'enorme numero di controlli per realizzare un vero screening di massa, indicato da molti scienziati come l'unica strada per sconfiggere il virus. Sempre che la Cgil non blocchi tutto.
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