Al Sud più morti che nascite. E il Belpaese rischia di sparire

Nel 2013 solo 177mila i bambini, il dato peggiore dal 1861. E aumenta la povertà. È uno tsunami, così in 50 anni rischiamo di avere 4,2 milioni di italiani in meno

Al Sud più morti che nascite. E il Belpaese rischia di sparire

Anche la grande nursery d'Italia entra in stato di crisi. Chiari segnali di sterilità. Le sommarie sensazioni adesso sono dati certi: come annuncia l'ultimo rapporto Svimez, nel 2013 i nati al Sud sono meno dei morti. Già era successo nel 1867 e nel 1918, annate eccezionali di fame e di guerra. E già in formato ridotto era capitato pure nel 2012. Ma nell'ultimo anno è record assoluto: solo 177mila bambini, mai numero così ridotto dal 1861, cioè quando neonata era l'Italia stessa.

La tendenza ormai è chiara, magari irreversibile: sempre peggio. Il Sud non è più il generoso ventre del Paese. Le previsioni a lungo termine assumono addirittura contorni apocalittici: «L'area sarà interessata da uno stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, perdendo 4,2 milioni di abitanti nei prossimi cinquant'anni, arrivando così a pesare per il 27 per cento sul totale nazionale, contro l'attuale 34,3».

Molto si potrà e di dovrà discutere sulle cause del fenomeno, certo legate indissolubilmente ai morsi della crisi economica. Ma nessun dibattito, neppure il più intelligente, potrà evitare l'unica conclusione acclarata: il Sud ha smesso di figliare, il Sud non è più lo straordinario produttore di mano d'opera che sin qui ha tenuto in piedi gli equilibri del sistema. Per generazioni e generazioni, proprio a partire dall'età unitaria, i figli scodellati dalle generose mamme meridionali si sono caricati la valigia sul treno e sono partiti. Certe volte proseguendo per la tangente e raggiungendo i luoghi più remoti del mondo, altre volte accalcandosi eccessivamente dove il lavoro non bastava per tutti. Ma sempre, tra frequenti storture e alienanti degenerazioni, questo gioco di vasi comunicanti ha comunque fatto la fortuna dell'Italia nel suo insieme. Soprattutto nel secondo Dopoguerra, epoca ruggente del boom.

Non è più così. Non sarà più così. Il Sud stesso sta subendo profondissime mutazioni. Uscendone stravolto. La rivoluzione silenziosa vede i giovani formati cercare ad ogni costo l'opportunità lontana, quasi sempre lontana dall'Italia, mentre da tutte le fessure dei nostri sgangherati confini s'insinuano i nuovi residenti. Legalmente o abusivamente, ci piaccia o no, gli italiani d'importazione utilizzano il Sud come grande banchina di sbarco. E in tanti si fermano. Non servono i rilievi degli statistici per rappresentare l'entità del cambiamento. Basta viaggiare tra borghi e contrade, chiunque se n'è già accorto a occhio nudo. L'Italia nera, l'Italia esotica, l'Italia altra, è qui nelle nostre città e nelle nostre campagne. Stabilmente. Per sempre.

Troppo facile a questo punto guardare dall'alto e dal di fuori l'Italia di domani, tra venti o trent'anni. Alla rivoluzione silenziosa bastano tempi molto brevi. Era solo il 1988 quando i primi sbarchi precipitarono improvvisamente Lampedusa nel suo nuovo e impensato destino. Venticinque anni dopo, stiamo già parlando di cambiamento epocale. Di un'altra Italia, che non figlia più di suo e che si ripopola con i nuovi ospiti. Così sarà tra venticinque anni: certamente riparleremo di un'altra Italia ancora. Quelli che adesso sono marker improvvisi di una situazione inattesa saranno a quel punto fenomeni stabili di una diversa società, venata di nuove lingue, nuovi colori, nuovi costumi, nuove religioni. E loro, i piccoli italiani dell'immigrazione di prima generazione, nati in questi anni, saranno uomini fatti e cittadini a pieno titolo. Questo è sicuro. Alla lunga, finiranno per dimenticare persino la lingua, le usanze, magari pure le religioni d'origine. È inevitabile, succede a tutti i figli di tutti gli emigranti di tutte le aree del mondo. Conserveranno un legame affettivo e malinconico con la terra degli avi, ma sarà solo una questione sentimentale. Nel concreto, compenseranno la nostra sterilità, forse sarebbe meglio dire le nostre paure e la nostra rassegnazione, con la voglia di credere e di crescere in un Paese comunque indicibilmente bello e ospitale, molto migliore dei suoi limiti, dei suoi vizi, delle sue meschinità. Dei suoi indigeni.

Da qui ad allora, ci aspetta un grande lavoro.

A loro spetta il dovere di capire e rispettare il nostro modello di Italia. A noi accettare l'idea che questa rivoluzione silenziosa, gestita senza stupidi buonismi e becere fobìe, potrebbe persino rivelarsi niente male.

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