Ci aveva provato, la Procura di Milano, a dare tutta la colpa della sua sconfitta al Principato di Monaco, che non si era degnato neanche di rispondere alle sue rogatorie. Un mese fa, annunciando di avere chiesto l'archiviazione dell'ultima indagine ancora aperta sulle tangenti che Eni avrebbe distribuito in giro per il mondo, la Procura aveva indicato nella mancata risposta dalle autorità monegasche la causa della impossibilità di portare a processo un'altra volta Claudio Descalzi, numero uno dell'ente di Stato, e altri sette indagati: stavolta per gli affari in Congo.
Ora arriva però il decreto di archiviazione firmato dal giudice preliminare Sofia Fioretta, che accoglie la richiesta firmata dal pm Giovanni Polizzi: ma va ben più in là, demolendo alle basi l'indagine coordinata dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. «L'ipotesi accusatoria non risultava adeguatamente riscontrata», scrive il giudice. E aggiunge che l'accordo raggiunto l'anno scorso tra Procura e Eni per «declassare» il reato di corruzione stabiliva che «non vi era stato alcun accordo corruttivo alla pari tra l'ente e i pubblici ufficiali congolesi ma al contrario Eni - che si era trovata ad operare in uno Stato sostanzialmente dittatoriale, ancora sfornito di regole di concorrenza trasparenti, incentrato sulla figura del presidente e tenuto in pugno da un manipolo di luogotenenti dello stesso - era stata persona vittima e offesa». «Le persone poste nelle posizioni apicali di Eni in quel paese erano state indotte dai pubblici ufficiali congolesi a promettere loro utilità come tante altre compagnie petrolifere private di altri paesi».
Eni non colpevole ma vittima, dice il giudice. É vero che le rogatorie non hanno mai avuto risposta. Ma «non risulta che l'ufficio requirente abbia svolto ulteriori indagini». Due imputati, peraltro, non si capiva nemmeno di cosa fossero accusati: «il pm non ha indicato alcuna precisa condotta ipoteticamente ascrivibile agli indagati». Uno dei due si era dimesso dall'Eni già nel 2005, «non ha mai avuto rapporti con gli altri indagati ed è sempre stato completamente estraneo ai fatti in oggetto di contestazione». Eppure per cinque anni è rimasto indagato per corruzione.
Ancora più severa la giudice nel valutare il secondo capo d'accusa, dove Descalzi doveva rispondere di non avere reso noto un suo conflitto di interessi: la moglie era socia di una azienda che noleggiava aerei all'Eni in Congo. Anche qui la Procura nella richiesta di archiviazione aveva tirato in causa le rogatorie senza risposta. Ma il giudice spiega che le operazioni di affitto di aerei «sono state concluse da altre società del gruppo diverse da Eni spa, dotate di autonomia giuridica e di propri organi gestori (...) non sono mai transitate nel consiglio d'amministrazione di Eni spa o nelle deleghe dell'amministratore delegato». Inoltre «nessuna delle operazioni ha causato un danno a Eni spa». Ma non basta: «risulta per tabulas che all'epoca dei fatti in contestazione la società non era più riconducibile alla moglie» di Descalzi. Tutti elementi che potevano essere conosciuti dalla Procura prima ancora di iscrivere i vertici di Eni nel registro degli indagati, nel lontano 2017.
Dopo cinque anni, i pm si sono arresi: ma, sostengono, solo perché il reato è prossimo alla prescrizione. Altrimenti forse avrebbero portato gli imputati a processo, salvo vederseli assolvere come negli filoni del caso Eni.
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