"Ulisse, torna a salvarci Ma forse tu mi tradisci..."

Penelope scrive al marito-eroe nella lettera inventata da Ovidio

"Ulisse, torna a salvarci Ma forse tu mi tradisci..."

Questa lettera te la invia la tua Penelope, o Ulisse lento a tornare. Ma non rispondermi, vieni tu stesso. Troia, odiata dalle donne greche, certamente è rasa al suolo: Priamo e l'intera Troia a malapena valevano tanto! (...)

Tu, anche se sei vittorioso, te ne rimani lontano e non mi è dato sapere quale sia la causa del ritardo o in quale parte del mondo tu, crudele, te ne stia nascosto. Chiunque diriga la sua nave straniera a questi lidi riparte solo dopo che l'ho interrogato a lungo su di te e gli viene affidata una lettera scritta di mio pugno per consegnartela, se mai ti vedesse in qualche luogo. Ho mandato a Pilo, terra del vecchio Nestore, figlio di Neleo: da Pilo mi sono tornate notizie incerte. Ho mandato anche a Sparta, anche Sparta non sa nulla di vero. In quali terre vivi, dove te ne stai? Sarebbe meglio che fossero ancora in piedi le mura di Febo - mi adiro inerme, purtroppo, contro i miei stessi desideri: saprei dove combatti e avrei timore solo della guerra e il mio lamento si unirebbe a molti altri. Ora non so di cosa aver paura e, insensata, ho paura di tutto e c'è molto spazio per le mie angosce. Temo che ogni pericolo del mare e della terra sia la causa del tuo ritardo cosi prolungato.

Mentre sono in preda a sciocchi timori tu puoi esserti innamorato di una straniera - tale è infatti l'indole vogliosa di voi uomini. Forse le racconti anche quanto è zotica tua moglie, buona soltanto a cardare lana. Possa io ingannarmi e questo sospetto svanisca nell'aria leggera, e non avvenga che tu, libero di tornare, voglia restare lontano. Il padre Icario mi spinge ad abbandonare il letto vuoto e continua a rimproverare la mia interminabile attesa. Continui pure a rimproverare: io sono tua, devo essere considerata tua, perché io, Penelope, sarò sempre la sposa di Ulisse. Alla fine del resto mio padre si lascia commuovere dalla mia devozione e dalle mie caste preghiere e modera le sue pressioni.

I pretendenti di Dulichio, di Samo e quelli nati nella rocciosa Zacinto mi assalgono, moltitudine senza senno, e spadroneggiano nella tua reggia senza che nessuno gli si opponga: divorano i tuoi beni, che sono la mia vita. Perché raccontarti di Pisandro, di Polibo e del crudele Medonte, delle mani avide di Eurimaco e Antinoo e di tutti gli altri che tu stesso, con la tua vergognosa assenza, alimenti con i beni che hai conquistato col sangue? Iro il mendicante e Melanto che guida il gregge destinato ai banchetti sono l'onta suprema che si aggiunge alla tua rovina. Siamo tre di numero, indifesi: una donna senza forze, un vecchio, Laerte, un ragazzo, Telemaco. Quest'ultimo, di recente, per poco non mi è stato strappato con un tranello, mentre si preparava a recarsi a Pilo, contro il volere di tutti. Vogliano gli dei, li imploro, che secondo il corso naturale del destino sia lui a chiudere i miei occhi, e così anche i tuoi. Sono con noi il custode delle mandrie, l'anziana nutrice e come terzo il fedele guardiano dell'immondo porcile. Ma Laerte, inabile alle armi, non può mantenere il regno in mezzo ai nemici - giungerà per Telemaco, purché sopravviva, un'età più vigorosa: ora la sua giovinezza doveva essere protetta dall'aiuto del padre, e io non ho le forze per scacciare i nemici dalla reggia.

Vieni tu, ti prego, che sei porto e rifugio per i tuoi. Tu hai, e prego che tu possa continuare ad avere, un figlio che doveva essere istruito in tenera età nelle conoscenze paterne.

Pensa a Laerte che prolunga l'ultimo giorno destinato alla sua vita perché sia tu in fine a chiudere i suoi occhi. Io, che alla tua partenza ero una giovane donna, per quanto presto tu possa tornare, di certo ti sembrerò diventata una vecchia.

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