Povertà, Aids e poligamia. Le piaghe dello Swaziland

Mswati III è il ricchissimo monarca assoluto che con la famiglia controlla tutta l'economia locale

Povertà, Aids e poligamia. Le piaghe dello Swaziland

In un angolo dell'Africa australe, incuneato tra il Sud Africa e il Mozambico, esiste un piccolo regno e un monarca assoluto, un Luigi XIV africano senza Versailles, ma con tantissimi denari e una serie infinita di problemi. È Mswati III, da 34 anni incontrastato re dello Swaziland o meglio del «Regno di eSwatini». Due anni fa, in occasione dei 50 anni dell'indipendenza da Londra, ha deciso di cambiare nome alla nazione ribattezzandola il «Paese dei Swatzy», l'etnia maggioritaria, il popolo del re. Ufficialmente un modo per marcare una cesura netta con il passato coloniale. In realtà il protettorato albionico durò meno di un secolo (dal 1881 al 1968), ed è ancora rimpianto da molti locali. La verità è ben più prosaica: il re non sopportava che lo Swaziland nei consessi internazionali venisse regolarmente confuso con la lontana Switzerland. Sbaragliati così gli elvetici, e forte della sua nuova denominazione, il minuscolo reame (17mila kmq, più o meno come il Lazio, e un milione di abitanti) ha aperto a libere elezioni. Apparentemente un normale esercizio di democrazia. Peccato che il parlamento abbia solo poteri consultivi e i partiti siano fuorilegge dal lontano 1973. Un'eredità di Sobhuza II, padre dell'attuale re, che stanco delle dispute tra le opposte fazioni (per lo più espressioni dei vari clan) decise di chiudere la breve quanto turbolenta pagina multipartitica per governare in perfetta solitudine. In ogni caso il lavoro dei deputati non è pesante: il parlamentino di Mbabane, la capitale, si riunisce di rado mentre il primo ministro e il governo sono nominati direttamente dalla corona. In più Mswati può sciogliere a suo piacimento l'assemblea e applicare il veto su ogni provvedimento legislativo.

Insomma nello eSwatini tutto ruota attorno al trono e alla famiglia reale, numerosissima e cannibalica. Il monarca ha 14 mogli, 23 figli e qualche centinaio di fratelli e sorelle, zii e cugini. Un blocco che controlla gran parte dell'economia basata sulla coltivazione della canna da zucchero (il regno è il quarto produttore africano). Una risorsa preziosa che assicura, grazie alle esportazioni verso il Sud Africa, l'Unione Europea e la Gran Bretagna, un flusso costante di capitali e rappresenta il 18% del Pil. Lo zucchero è soprattutto un ottimo affare per la Royal Swaziland Sugar Corporation, società controllata dal fondo Tibiyo Taka Ngwane, la cassaforte privata di Mswati e famiglia. Come un anaconda la Tibiyo avvolge tra le sue spire l'intera nazione: il 60% delle terre coltivabili, le fabbriche, le miniere di diamanti e carbone, i trasporti, il turismo. Il tutto per un valore attorno ai due miliardi di dollari. Un bel business che però sfiora appena i sempre meno pazienti sudditi di sua maestà. Da anni le finanze dello Stato languono, mentre disoccupazione (ormai al 42%) e povertà (il 70% della popolazione vive sotto la soglia minima) continuano a crescere in modo esponenziale. Nell'agosto 2008, la rivista Forbes ha nominato Mswati III secondo uomo più ricco dell'Africa, mentre il Programma alimentare mondiale dell'Onu ha rivelato di tenere in vita 600mila swazisti, ovvero più del 60% della popolazione. Ripetutamente il Fondo monetario internazionale è intervenuto invitando il premier Ambrose Dlamini ad applicare drastiche misure strutturali. Inutilmente. Nel 2016 la «misteriosa» sparizione di 360 milioni di dollari dai fondi governativi ha scatenato un'ondata di scioperi che ha costretto il sovrano ad autorizzare la formazione di sindacati indipendenti.

Ancor più grave è però la situazione sanitaria: il 37% della popolazione tra i 15 e 49 anni è affetta dal virus Hiv, un'ecatombe per la piccola nazione africana. Per tutta risposta Mswati, uomo terribilmente superstizioso, ha incolpato dell'epidemia gli stregoni e inasprito le già dure leggi sulla morale, proibendo minigonne, divorzi e rapporti prematrimoniali sotto i 24 anni. La svolta bacchettona è certamente stravagante e probabilmente inutile, ma piace molto ai capi villaggio tradizionalisti, la base di consenso del potere regale. Ma il sovrano può contare anche su altri alleati, ben più potenti e danarosi. eSwatini vanta rapporti diplomatici ufficiali con la Cina, a ruota seguono gli Stati Uniti. La Coca Cola è da sempre attiva nel Paese (per la multinazionale lo zucchero è un ingrediente fondamentale), ma dal 2014 anche Washington è politicamente presente. A pochi chilometri dalla reggia, il dipartimento di Stato ha eretto la nuova ambasciata statunitense. Enorme, massiccia, e imponente. Ai contribuenti americani il palazzo è costato 141 milioni di dollari. Una cifra spropositata vista l'irrilevanza geopolitica del Paese. Secondo gli analisti, il regno di Mswati III potrebbe diventare il cuneo di Washington nell'Africa australe. Una regione strategica dove cinesi e russi guadagnano ogni giorno terreno. Da qui il sospetto che l'ambasciata altro non sia che una nuova base di Africom, il dispositivo militare americano per il Continente nero. Di certo lo spera l'ultimo monarca assoluto dell'Africa. Per sopravvivere, prosperare, e rimpinguare il parco macchine che da qualche settimana conta anche su 20 Rolls Royce che si vanno ad aggiungere alle 120 Bmw gelosamente custodite nei garage reali. La notizia ha fatto il giro del mondo ed è arrivata anche alle orecchie del leader dell'opposizione Wandile Dludlu, capo del Movimento democratico unito popolare.

Dal carcere, dove si trova rinchiuso dallo scorso dicembre, Dludlu ha lanciato un'idea che va ben oltre la semplice provocazione. «Attraverso i miei legali sono in contatto con il premier sudafricano Mabuza. Per salvare eSwatini l'unica strada percorribile è l'annessione a Johannesburg».

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