Il presidente rovinato da Leila, la vera anima nera del regime

La moglie di Ben Ali, ex parrucchiera, sarebbe fuggita portandosi via 1500 lingotti d’oro presi dai forzieri della banca di Stato

Il presidente rovinato da Leila, la vera anima nera del regime

Chiamatela fuga se vi pare. Ma forse quello di Ben Alì è solo l’ultimo viaggio. L’ultimo volo sulle tracce dell’amata Leila Trabelsi, la spregiudicata e discussa seconda moglie ispiratrice di tutti i suoi errori e di tutte le sue disgrazie. Di lei non si sa nulla da quei confusi giorni di metà dicembre quando il ventre profondo del paese incomincia a rumoreggiare e le voci di palazzo la danno in partenza per lidi lontani. In quei giorni la 53enne ex parrucchiera cresciuta nei sobborghi della città e salita, letto dopo letto, fino alle stanze del palazzo presidenziale probabilmente ha già capito tutto.
A dar retta ai bisbigli di Tunisi ha fatto prelevare 1500 lingotti d’oro dai forzieri della banca di Stato per farli caricare sull’aereo pronto a traghettarla in una villa di Dubai. Certo son voci, ma ben s’addicono all’immagine di una «premier dame» considerata l’origine di tutti i mali, la grande corruttrice di un presidente un tempo saggio e amato, l’ambiziosa mantide divoratrice delle ricchezze del Paese. Una mantide di lontana origine libica sospettata ora anche di aver orchestrato la partenza del marito con l’aiuto delle autorità di Tripoli. Una partenza sulla strada dell’esilio considerata anche la prima tappa del ricongiungimento familiare con quella che a Tunisi tutti chiamavano la «reggente». In quel soprannome è rinchiuso il coacervo di odio, risentimento e rabbia che circondano l’ex parrucchiera, sposata in seconde nozze da Ben Ali nel 1992, e la sua famiglia. Una famiglia quella dei Trabelsi il cui nome risuona da tre settimane in tutte le piazze. Lo slogan più urlato dei moti «No ai Trabelsi no ai predatori di stato», è destinato forse a diventare il titolo finale della grande rivolta, della ribellione contro una donna e un clan accusati di aver trasformato la nazione in proprietà privata e le casse dello stato in un bancomat personale. La verità su Leila la sanno in pochi. La storia di quella ragazzina smaliziata uscita da una famiglia di undici fratelli e sorelle, le vicende di quell’adolescente conturbante e disinvolta passata dalla banlieu alle feste della Tunisi più elegante, le avventure di quella parrucchiera seduttrice e disinibita sempre al fianco di uomini molto più ricchi ed anziani sono - da vent’anni - un segreto di stato. Un segreto gelosamente custodito da quando nel 1992 Ben Alì la promuove da amante a seconda moglie.
Da quel momento Leila Trabelsi, i suoi undici fratellini, la loro prole e i loro amici iniziano una inarrestabile corsa al potere e alla ricchezza. Il capofila della scalata è Belhassen, il fratellino prediletto di Leila. Inserito prima nel comitato centrale dell’Rcd (Rassemblement constitutionnel démocratique) il partito fondato da Ben Alì Belhassen siede poi nel consiglio d’amministrazione della Banca di Stato di cui diventa, si dice, il vero gestore ombra. Un ruolo facilitato dalla gestione più o meno simbolica dell’istituto di Stato affidato dal 2008 ad Alya Abdallah una signora conosciuta come l’obbediente amica della «premier dame». Se Belhassen è la punta il resto del clan non è da meno. Grazie alle attenzioni di Leila nessuno resta indietro. Nessuno resta escluso. L’amata, ma poco studiata cugina Najet si trasforma, ad esempio, da infermiera di professione in direttrice dell’ospedale di Kheireddine.
Ma l’immagine forse più devastante del sistema di potere affidato al controllo di Madame Leila è quello narrato dall’ambasciatore americano Robert Godec in un dispaccio segreto rivelato da Wikileaks. In quel messaggio si riferiscono i dettagli di un opulenta cena nella magione di Nesrine, la primogenita di Ben Ali e Leila, e di suo marito Mohamed Sakher El Materi. In quella cena il 28enne El Materi, già trasformato in uno degli imprenditori più ricchi del Paese, serve un dessert di dolci e gelati fatti arrivare freschi freschi da Saint Tropez grazie ad un volo privato pagato con i soldi dello Stato.

In quella cena l’ambasciatore americano assiste stupefatto al pasto della tigre Pasha ospitata in una gabbia della sala da pranzo e nutrita con quattro polli al giorno. Un fasto e uno scialo da fine impero degni – annota il profetico ambasciatore - del regno di Saddam Hussein e di suo figlio Udai.

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