La «primavera araba» mette d’accordo Obama e Bin Laden

Osama come Obama. Sembra un gioco di parole, ma non lo è. La comparsa, ieri, del video postumo con cui Bin Laden si dichiara solidale con il Medio Oriente in rivolta anticipa di poche ore il discorso con cui il presidente Barack Obama si rivolge a quelle stesse popolazioni promettendo la ripresa dei negoziati tra israeliani e palestinesi, il ritorno dello stato ebraico ai confini del ’67, la fine di Gheddafi e di tutti gli altri dittatori. La coincidenza di tempo e pubblico non è lo scherzo di un destino burlone, ma la conseguenza del disorientamento generato dalle rivolte arabe. Rivolte che hanno marginalizzato Al Qaida trasformandola in un corpo estraneo lontano dalle piazze mediorientali. Rivolte che hanno, allo stesso tempo, cancellato l’illusione di un presidente americano convinto di poter diventare un punto di riferimento per tutto il mondo islamico.
Paradossalmente la sconfitta del presidente Obama è ancor più grave di quella del terrorista Osama. Un gruppo terroristico è per natura elitario e settario. È per natura convinto di rivolgersi solo ad una ristretta cerchia di fanatici. La debacle di un presidente convinto di poter dialogare pacificamente con l’intero mondo arabo è dunque più devastante. Sotto la guida di Obama l’America non solo non riesce a prevedere l’arrivo della primavera mediorientale, ma si dimostra anche incapace d’affrontarla. I cinque mesi che fanno tremare il Medio Oriente facendo circolare la rivolta dalla Tunisia all’Egitto, dalla Libia allo Yemen, dal Bahrein alla Siria sono, se visti dallo Studio Ovale, un caleidoscopio di sorpresa ed improvvisazione, disorientamento e confusione. In Tunisia la fuga di Ben Alì arriva prima che il presidente e il segretario di Stato Hillary Clinton riescano a definire una strategia. La reazione non è diversa quando - a metà gennaio - il contagio colpisce l’Egitto, il miglior alleato in Medio Oriente dopo Israele. Obama e Hillary subiscono gli eventi e mollano l’alleato Mubarak senza individuarne uno alternativo.
Ora, a tre mesi dall’addio al “faraone”, Obama cerca di ricomprarsi la fedeltà del nuovo Egitto a suon di dollari. Ma i due miliardi in aiuti promessi al Cairo sono il simbolo più evidente della mancanza di credibilità di una Casa Bianca incapace sia di difendere i vecchi alleati, sia d’imporre la superiorità della propria visione ai nuovi leader. Mentre Obama promette denaro e amicizia, il Medio Oriente gli urla “disamericanizziamoci” sintetizzando in uno slogan l’immagine di un’America incapace non solo di farsi amare, ma anche di farsi rispettare. Nel frattempo i generali egiziani trattano con i Fratelli Musulmani, sponsorizzano in gran segreto la riconciliazione tra Hamas e Fatah, spiazzano la Casa Bianca e la svuotano di ogni capacità negoziale. E il nuovo Egitto, seppur in brutale rotta di collisione con lo Stato ebraico, finisce paradossalmente per far un regalo a Benyamin Netanyahu e a quanti in Israele considerano inutile qualsiasi negoziato con i palestinesi. Obama promette una pace basata sui confini del ’67, ma il riavvicinamento tra Hamas e Fatah e l’imminente entrata dei fondamentalisti nel governo dell’Anp non gli consente certo di imporre a Netanyahu, atteso oggi alla Casa Bianca, la ripresa dei negoziati.
E così mentre Hamas è il primo a rifiutare le offerte di negoziato il discorso di Obama evidenzia tutti i limiti delle sue promesse. In Libia il suo improvviso innamoramento per la “no fly zone” voluta da Parigi ci ha trascinato nel tunnel di una guerra da cui nessuno, Obama in testa, sa come uscire.

In Siria le sue sanzioni colpiscono un gruppo di alti esponenti del regime, ma risparmiano il presidente Bashar Assad, vera cuspide di un potere gestito in simbiosi con gli iraniani. Ovvero con il principale nemico di Washington e della sua politica mediorientale.

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