«Con Prodi l’Italia rischia l’uscita dall’euro»

Il condirettore Munchau: «La coalizione di centrosinistra rischia di non poter portare a termine neanche il suo insufficiente programma»

Gian Maria De Francesco

da Roma

«La vittoria di misura dell’alleanza di centrosinistra guidata da Romano Prodi è il peggior risultato immaginabile per le chances dell’Italia di restare nell’Eurozona oltre il 2015». Il condirettore del Financial Times, Wolfgang Munchau, nell’editoriale di ieri ha tratteggiato un cupo ritratto del futuribile governo dell’Unione prospettando addirittura uno sganciamento del nostro Paese dall’area euro.
«Mi aspetto che gli investitori internazionali inizino ad aprire posizioni speculative sulla permanenza dell’Italia nell’euro nel corso del governo Prodi», ha aggiunto Munchau. Quali sono i motivi in base ai quali l’autorevole testata britannica non ha atteso neanche il giorno dell’insediamento per giudicare il Professore inadatto come capo dell’esecutivo?
Un Paese al bivio. Lo scetticismo del Financial Times si origina da valutazioni puramente economico-finanziarie. Per quanto l’Italia sia in una situazione problematica, le difficoltà sono ben diverse da quelle dei due big del continente, Francia e Germania. Se in questi due Paesi la scarsa crescita economica si accompagna a un’elevata disoccupazione, nel nostro Paese la stagnazione è stata accompagnata da «un’impressionante creazione di posti di lavoro». Il problema dell’Italia è quindi «quello di non essere pronta a una vita nell’Unione monetaria». In Germania, infatti, l’apprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro è stato controbilanciato dalla politica dei salari. In Italia, invece, dal 1999 il costo del lavoro è aumentato del 20% rispetto alla Germania e le retribuzioni crescono del 3% annuo.
Prodi inadeguato. «Un programma di riforme economiche radicali dovrebbe focalizzarsi sui sistemi retributivi e sulla regolamentazione dei mercati dei prodotti e dei servizi. Prodi propone quello sbagliato, incentrato su riforme dal lato dell’offerta, le stesse che hanno fallito in altri Paesi europei», precisa Munchau. Perdipiù, la coalizione patchwork di centrosinistra, con una risicata maggioranza al Senato, rischia di non portare a termine neanche il suo insufficiente programma. Di qui il Financial Times adombra il prevalere di un movimento populista che metta in agenda l’uscita dall’euro per recuperare la competitività perduta.
L’impensabile. Ma che cosa potrebbe succedere tornando alla vecchia lira? L’Italia dovrebbe convertire un debito espresso in euro che pesa per il 106,5% del pil. Quasi sicuramente a un tasso di cambio sfavorevole. Questa situazione equivarrebbe al default, l’impossibilità di onorare le proprie obbligazioni. Perché allora sui mercati dei titoli di Stato non si sconta già questa eventualità? In primo luogo, l’Italia viene vista come intrappolata nell’area euro, fatto che non le consente di risolvere le sue difficoltà. In secondo luogo, si tende a pensare che la Bce possa organizzare una strategia di salvataggio. In terzo luogo, si ritiene improbabile che un default possa accadere nell’arco dei dieci anni di validità di un bond (i decennali sono i titoli più richiesti; ndr). «Ma gli investitori obbligazionari sono compiacenti fino a quando non iniziano ad essere preda del panico».
Credit default swap. Secondo l’editorialista, è stimabile un rialzo del prezzo dei credit default swaps (Cds, contratti di protezione dal rischio default; ndr) sul debito italiano, attualmente a 21.750 euro per ogni 10 milioni di titoli del Tesoro, un livello ritenuto molto basso. «I Cds - aggiunge - non sono strumenti speculativi, ma gli investitori sofisticati sanno come costruire strategie profittevoli da valutazioni sbilanciate». Munchau non spiega l’affermazione forse alludendo alla richiesta di tassi più alti per continuare a comprare i titoli italiani.

E conclude con un parallelismo: le speculazioni valutarie nel 1992 hanno buttato fuori dal Sistema monetario europeo la Gran Bretagna, allora non pronta a vivere in un sistema di tassi di cambio semirigidi. La vita dell’Italia in Eurolandia si basa sulle stesse fondamenta poco solide e «per gli investitori quattordici anni fa ci vollero pochi giorni per mettere a nudo una bugia politica».

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