C’è da chiedersi perché continuiamo a interpellare politologi e sociologi per cercare di «comprendere le ragioni» dei contestatori in servizio effettivo e permanente, quando sarebbe più adatto un buon psicologo, o meglio ancora un buon psichiatra.
Costoro, i professionisti della protesta, scendono in campo ad ogni G8, e c’è da capirli: i G8 sono le loro Olimpiadi. Ma sottotraccia sono sempre presenti: per denunciare chiunque detenga un potere (cattivo per definizione); per gridare che la democrazia è in pericolo; per sottolineare lo squilibrio fra ricchi e poveri; per esecrare un terremoto; per stigmatizzare un’alluvione. Per loro c’è sempre «un colpevole» in tutto, dalle crisi alle calamità naturali ai loro insuccessi privati.
La psicopatologia del contestatore può essere analizzata passando attraverso alcune chiavi di lettura. La prima è quella del linguaggio.
Il contestatore non pensa prima di parlare: va in automatico. Ripete slogan e frasi fatte che si possono rimescolare come il cubo di Rubik ottenendo sempre il risultato di non ottenere alcun risultato. Per esempio a questo G8 il «manifesto della protesta» annuncia «una dinamica di blocco della circolazione e della mobilità che, combinando pratiche creative e intelligentemente radicali, rivolga la nostra degna rabbia a ostacolare la funzionalità della celebrazione dei potenti della Terra e della loro bancarotta». Sembra un monologo di Verdone e invece è pubblicata sul sito di Indymedia. Ad Ancona, per dire, hanno spiegato che ci sarà «una giornata senza frontiere per liberare il porto dalle barriere e dalle gabbie dove si infrangono quei desideri di libertà e dignità che vengono dal mare». La parola d’ordine per tutti è «essere imprevedibili per vincere la repressione». Cioè, un sacco impegnati, questi ragazzi.
Secondo indizio che suggeriamo allo psichiatra che avrà la bontà di esaminare il caso: l’essere sempre «contro» senza mai proporre soluzioni ai problemi che denunciano. Al Forum dell’altro ieri, per esempio, c’erano quelli «contro» la discarica di Chiaiano, quelli «contro» l’allargamento della base Dal Molin, quelli «contro» la Tav, e tutti naturalmente «contro» il G8, che è «illegittimo, l’espressione politica dello sfruttamento e del profitto». Sono «contro» anche l’immancabile «globalizzazione», un termine che ormai non si capisce più che cosa voglia dire, e infatti debbono averlo intuito perfino loro, visto che Luca Casarini, ex portavoce del «movimento» (altro termine frusto) ha detto ieri che non si riconosce più nel termine «no global» ma nella dicitura «un altro mondo è possibile». Quale mondo? Boh. Casarini cerca di articolare una piattaforma: «Le richieste sono le stesse: democrazia, partecipazione, consenso dal basso». Di nuovo boh. Qual è l’idea di modifica dell’attuale democrazia? Proposte zero. Almeno le Brigate rosse una visione della società l’avevano.
Terzo sintomo psichiatrico: la voglia di menare le mani. Sul web corre il tam tam della guerriglia urbana, si informa «sulle cariche e la caccia all’uomo degli sbirri», si indicano «gli obiettivi sensibili». Su Ticker, un rullo di notizie aperto da Indymedia, si forniscono informazioni dettagliate: «Blindati circondano la stazione Termini, evitare di circolare da soli»; in piazza vengono distribuiti «vademecum anti repressione», consigli su cosa fare «se la polizia ti ferma per strada». Ad esempio, se ti rincorrono «corri e cerca di stare in gruppi di sesso misto». Vengono distribuiti anche numeri di telefono per l’assistenza legale. Che suggerire allo strizzacervelli? Che i casi sono due: o questi poveretti credono di vivere in Iran o nel Xinjiang, oppure stanno solo giocando alla guerra ed è un peccato che scomodino tanta forza pubblica quando potrebbero sfogarsi con un Risiko o una battaglia navale.
Quarto psico-sintomo: la singolare scopiazzatura dall’odiato mondo borghese di ruoli, cariche e gradi da appuntarsi sulla giubba. Ad esempio: ormai basta che cinque universitari si mettano insieme perché all’interno del gruppo venga nominato «un portavoce».
Infine il vittimismo: «Abbiamo nemici potenti che ci mettono anche in galera», ha detto Casarini; gli ha fatto eco Lele Rizzo del centro sociale Askatasuna di Torino: «In questi giorni è la galera il modo usato per reprimere il dissenso e intimorire il movimento». Queste frasi forse fanno parte più di quel fingere di essere in guerra. Invece, il pensare che ci sia sempre qualcuno che te l’ha messo in quel posto è probabilmente il vero denominatore comune dei professionisti della protesta. Un vittimismo che ti permette di scaricare sugli altri quel che non sei capace di fare.
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