Quando la droga di Stato non sconfigge i narcos

La libera vendita di cannabis ha ridotto le entrate dei boss, che però puntano su altri stupefacenti

Quando la droga di Stato non sconfigge i narcos

Nell'aprile del 2014, un anno prima di lasciare la presidenza, José Pepe Mujica, l'unico ex guerrigliero Tupamaros, eletto capo di Stato, firmò una rivoluzionaria legge che liberalizzava tutte le droghe leggere. L'Uruguay era il primo Paese sudamericano ad approvare una legge controversa in un continente che è il più grande produttore al mondo di stupefacenti. Sei anni dopo, Il Giornale è andato a controllare se l'idea di Pepe e del suo governo progressista ha eroso i profitti illeciti dei narcos.

La legalizzazione della marijuana fu l'apice di un lungo dibattito parlamentare. Sull'esecutivo di Pepe piovvero critiche pesanti dai partiti d'opposizione, dai Governi di Brasile, Colombia, e Messico, con la protesta dell'Incb, l'Organo internazionale per il controllo degli stupefacenti, un ente indipendente dell'Onu. E la cannabis di stato, prima di arrivare nelle farmacie, impiegò oltre un anno, a causa della complessità della legge, composta di centinaia di articoli e dal modo su come affiancare medicine e cannabis e soprattutto, per il rischio che lo Stato pagasse il medesimo coltivatore di marijuana già assoldato dai narcotrafficanti. Quando le produzioni statali entrarono a regime, con la filiera di prodotti tracciabili, erano passati, tra burocrazia e problemi di sicurezza, due anni dal voto al Congresso

Oggi, semplificando la corposa legge, sappiamo che esistono tre modi legali per fare shopping di cannabis evitando la galera: si può coltivare in casa, fino a un massimo di sei piantine, i consigli per un buon raccolto si trovano su YouTube. Ma, nota negativa, non esistono controlli nelle abitazioni, ci vuole un mandato del giudice, quindi quelle sei piantine, pensando a un'agricoltura casalinga semi intensiva e finalizzata allo spaccio (illegale) tra amici, diventano una serra industriale. Il secondo modo per fumare legalmente è aprire o farsi socio di un «cannabis club», come avviene in Spagna. Il club è un'associazione ludica che coltiva un massimo di 99 piante di marijuana, ma nessuno controlla, poi vende ai soci maggiorenni e anche ai turisti. Però, a differenza delle leggi spagnole, quella uruguayana non vieta di tesserare non residenti e turisti, mentre in Spagna, non essendo la marijuana liberalizzata, ma soltanto tollerata in modiche quantità, bisogna essere soci e residenti nella città in cui esercita il club. Se trasgredisci e vendi ai clienti stranieri, non soci e non residenti, vai in galera. Così a Montevideo senza nessun divieto, a parte l'età, in un cannabis club si comprano 60 grammi di cannabis (15 grammi a settimana) per 400 pesos (meno di 13 euro). E questo attira migliaia di giovani da tutto il Cono Sur. Un bel viaggio «fuma e fuggi» di 24 ore per sballarsi e ripartire. Poi, è un attimo: si fa una comune di fumo, in cui ognuno aggiunge i suoi 15 grammi e si compone un bel panetto da riportare in Brasile o Argentina, magari spedendolo e sfidando le dogane, per rivenderlo a prezzo maggiorato. Questo traffico di «turistas del porro» è aumentato del 40% dal 2016, tanto che Montevideo è diventata «l'Amsterdam sudamericana». Infatti, a differenza dei clienti uruguayani, i turisti non hanno l'obbligo d'iscriversi a un registro nazionale di fumatori di sostanze psicotrope e comprano, quasi sempre tentati dallo sconto dei gestori dei club, in nero l'erba. Grazie a questi introiti non tracciabili, i soci si possono pagare le pesanti tasse sul club. Un altro buco della legge di Pepe.

Il terzo modo, invece, è la vendita in farmacia: pacchetti da cinque grammi di marijuana a 180 pesos (5,4 euro), fino a un massimo di 40 grammi al mese. Le farmacie sono più economiche, ma molto meno fornite con tempi d'attesa lunghissimi rispetto ai club. Anche le farmacie, comunque, non chiedono la residenza e la potenza psicotropa è molto diluita, rispetto alla cannabis spacciata in strada. Le due varietà di cannabis permesse in Uruguay sono la cannabis indiana e la sativa, entrambe contengono tra il 7 e il 9 per cento di THC, il principio attivo alla base dell'effetto stupefacente. Nella marijuana spacciata illegalmente e proveniente da Brasile e Argentina la percentuale è il triplo. Questo spiega le presenza di zone grigie di spaccio.

Secondo i dati dell'Instituto de Regulación y Control del Cannabis, a marzo 2020 i consumatori di marijuana legale erano 48.023: di questi, 35.112 acquistano la marijuana in farmacia; 8.012 la coltivavano in casa e 4.899 sono soci dei 137 cannabis club.

I risultati nel combattere il traffico di droghe leggere sono stati, invece, quasi del tutto positivi, anche se con qualche illegalità. Dal 2016 quasi 23 milioni di dollari di fatturato sono stati tolti ai narcos locali, ma il mercato di stupefacenti è rimasto ben radicato in Uruguay e si è adeguato all'offerta delle droghe di Stato, puntando sull'effetto più leggero della marijuana di Pepe. Un altro effetto collaterale della legge uruguayana è che la maggior parte delle banche sudamericane e mondiali non accettano il denaro proveniente dalla vendita di droga, anche se leggera.

Lo considerano un reato e, quindi, rifiutano farmacie e cannabis club e li aggiungono alla black list degli enti internazionali di controllo finanziario. Un ulteriore problema sono le eccedenze del raccolto legale che finiscono nelle mani dei narcos, disposti a pagare il doppio di Montevideo.

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