C’è una solitudine peggiore di quella dei sordi. È quella di chi passa la propria giornata in silenzio, ad ascoltare, in cuffia, la vita altrui. Per poi spifferarla al magistrato di turno. È la solitudine dell’intercettatore. Una solitudine piena di dubbi: «Avrò capito bene? Stava parlando di biscotti o di droga? Di droga, altrimenti perché il gip avrebbe concesso l’autorizzazione a intercettare... E se fossero biscotti?».
L’intercettatore tutto questo se lo tiene dentro. È giovane, spesso è l’ultimo arrivato, la sala intercettazioni è considerata una gavetta. Con il tuo partner non puoi confidarti, con il tuo superiore neppure («Devi essere sicuro di quel che senti, cosa sono questi dubbi?» è la risposta standard).
In sala intercettazioni, che per legge deve stare in Procura, si fanno turni di sei ore, senza pause. Non ci sono cabine, è un open space: si può ingannare l’attesa parlando con qualcuno. Ci sono due registratori, forniti da ditte private. Uno è blindato e non si sposta mai. L’altro, quando la sala intercettazioni viene «remotizzata» altrove, per esempio in Questura, segue l’intercettatore, che può usare mandare avanti o indietro il registrato. Una volta erano su bobina, oggi sono hard disk.
Ore di noia. Spesso c’è da ascoltare solo il fruscio delle apparecchiature. La scarica di adrenalina, il «vero caffè» come lo chiamano gli intercettatori, è quando qualcuno telefona. L’apparecchiatura indica il numero di chi chiama e l’ora. L’intercettatore, in quell’istante, indossa le cuffie oppure tiene l’audio aperto, aggiusta il volume, agguanta brogliaccio e penna. Non trascrive la telefonata. Sul brogliaccio ci sono nomi e parole chiave dell’indagine e uno spazio per rapidi appunti.
L’intercettatore ascolta banalità sconcertanti. Tra marito e moglie, tra marito e amante, tra intercettato e commercialista. Tra indagato e colluso. Nell’ultimo caso le sue orecchie fremono: «Biscotti o droga?». E come può dirlo l’intercettatore? La direttiva è di affidarsi a contesto e vocabolario, quasi mai all’intonazione della voce. L’interpretazione è istintiva. Si cerca di cogliere, come quando si seguono le intercettazioni in lingue straniere, le cosiddette «parole innesco». La possibilità di errore è notevole, come nel caso di Yara Gambirasio («Dio, fa che risponda!» fu tradotto «Allah, perdonami, non lo uccisa io!»). Spesso, «per continuare a lavorare», l’interprete civile asseconda il sentire dominante del magistrato. È il motivo per cui, sovente, la difesa riesce smontare a processo l’accusa, facendo ascoltare in aula l’audio dell’intercettazione. «Abbiate pazienza, vostro onore, l’imputato ha detto “ti uccido!” ma aveva il sorriso nella voce!».
Se ascolta qualcosa di grave, l’intercettatore deve avvisare il superiore, che scrive subito un verbale per il pm, il quale dovrebbe ascoltare l’intercettazione e decidere. In pratica, però, l’ufficiale finisce con l’avallare l’interpretazione dell’intercettatore e riferisce al pm (il verbale lo porterà più tardi), pm che è già quasi convinto di suo, avendo autorizzato l’operazione. Un gioco a incastri che combaciano perfettamente, per pigrizia o conformismo. Per legge, è solo il pm che dovrebbe «interpretare» le intercettazioni, in realtà è il nostro intercettatore di gavetta a decidere se quel che sente è «utile», «rilevante», «inutile». È il percorso che, secondo alcuni esperti, sta trasformando il caso Parolisi nell’ennesima tragedia giudiziaria: dove le intuizioni partite dal basso sono confermate solo da altre intuizioni. Come dire: in Italia rischiano molto di più le persone per bene se qualcuno «le punta», che un vero criminale.
Alla fine dell’indagine le intercettazioni non vengono trascritte, ma riassunte da un ufficiale. È questo brogliaccio che arriva al pm. È il momento degli errori. Il pm, avendo sottomano un riassunto, non valuta i fatti, ma un coacervo di interpretazioni. Di cui dovrebbe già stralciare le parti riguardanti la vita privata degli intercettati, per portare a un eventuale processo quelle incriminanti. Da dove arrivano allora quelle minuziose intercettazioni che stanno asfissiando i nostri quotidiani?
Quando finisce un’indagine, la ditta privata che ha fornito le apparecchiature «estrae» le registrazioni dai computer e le riporta su cd. Il pacco - sigillatissimo e con numero di protocollo - arriva alla cancelleria della Procura. Improbabile la fuga di notizie avvenga qui. Più spesso, è la ditta privata che ha delle falle: chi vi lavora può addirittura chiedere in remoto alle Procure una copia dei file audio.
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