Martedì mattina, ore 6.35 a Fiumicino: un centinaio di persone - tra cui chi scrive - sono in attesa di imbarcarsi su un volo per Milano. Non è un gruppo di turisti in vacanza, ma sono persone che si stanno spostando per lavoro. In procinto dell'imbarco viene annunciato un ritardo di un quarto d'ora per mancato arrivo di una parte dell'equipaggio. L'annuncio si ripete per altre quattro volte finché alle 8.30 il volo, senza altre spiegazioni, è definitivamente annullato. Il responsabile del volo e le hostess di terra riescono ad imbarcare tutti i passeggeri sull'aereo delle 9 che lascia Fiumicino alle 9.50. Solo durante il corso della giornata i passeggeri riescono a sapere cosa è successo dai notiziari radio e tv: uno stato di agitazione degli assistenti di volo per il rinnovo della parte economica del contratto. All'ultimo momento un assistente di volo non si presenta alla partenza, in modo che non sia possibile sostituirlo. A quel punto qualcuno dell'equipaggio chiede di applicare alla lettera le procedure previste riguardo le composizioni del personale di bordo. È cronaca quotidiana e ripetuta di questi tempi in cui ogni giorno centinaia di persone rimangono a piedi o accumulano grandi ritardi con pesanti conseguenze sul loro lavoro.
Non interessa in questa sede cercare di stabilire chi abbia ragione rispetto alla parte economica del contratto, anche se è palese che tra i contendenti qualcuno se ne infischia della sorte della compagnia aerea.
Il punto però è un altro. In un'era di globalizzazione i lavoratori del terzo mondo, per migliorare la loro condizione, competono con noi e cercano di sottrarci una parte della nostra quota di reddito mondiale. In tale contesto, se si vuole evitare l'impoverimento di un Paese come il nostro, senza materie prime, forza politica interna e internazionale, occorre essere profondamente motivati e uniti nel cercare di aumentare la nostra capacità produttiva, così come avvenne nell'Italia del primo dopoguerra o del boom economico. Secondariamente, se si vuole evitare la nascita di disuguaglianze di tipo americano, intollerabili nella nostra mentalità, deve crescere una «gratuità» dei più anziani verso i giovani, degli occupati verso i disoccupati, dei «normali» verso i disabili, dei più ricchi verso i più poveri, degli indigeni verso gli extracomunitari.
E il primo passo di questa gratuità è il non abbassarsi a corporativismi e rendite che, in nome dei propri diritti, non esitano a calpestare quelli di altri. La «gratuità» non è solo necessaria per il «volontariato»: è indispensabile perché esista, nel nostro Paese, una convivenza civile degna di questo nome e una prospettiva di reale sviluppo.
*Presidente Fondazione
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