da Santiago del Cile
A Santiago del Cile è primavera inoltrata e il fiume Mapoche scorre veloce, trascinando le sue acque fangose dai colori lividi, mentre in alto splendono, a tratti ancora ammantate di neve, le vette maestose delle Ande. Dal ponte si scorgono lunghe file di macchine che girano attorno a Plaza Italia, nome rimosso con lavvento del fascismo e sostituito con Plaza del General Baquedano, che troneggia a cavallo issato su una grande statua. Lo stesso è accaduto con il vicino Parque Japonés, poi chiamato Gran Bretaña; ma tutti qui continuano a dire Plaza Italia, forse per uninnata simpatia nei nostri confronti.
Al centro della città, davanti al Museo Histórico Nacional, un gruppo sparuto di insegnanti alza un lungo cartello di protesta per la riduzione dei posti dei docenti dellistruzione pubblica, criticando il finanziamento concesso alla scuola privata. Un giovane impugna un microfono, ma la voce esce fioca e gracchiante, oscurata dal brusio della gente che poco più in là ha formato un grande cerchio e osserva incantata un giocatore circense intento a far volteggiare dei palloncini colorati. Ogni lancio è accompagnato da grandi manifestazioni di stupore e giubilo, seguite da applausi scroscianti che spaventano i colombi appollaiati sulle statue della facciata della cattedrale metropolitana. Insomma, a Santiago ci si diverte con poco, proprio come una volta, e fa uno strano effetto vedere, di fronte alla chiesa immersa nel sole di mezzogiorno, un grande albero di Natale fatto di polistirolo verde e addobbato con grandi tappi di Coca-Cola; un albero che contrasta con il tenero azzurro dei fiori delle jacarandás, le piante tropicali che circondano la piazza e fiancheggiano i viali e i giardini della città.
È difficile resistere allo spettacolo di questa primavera che porta nei poveri banchetti delle strade grandi ceste di ciliegie, cassette di gialle albicocche e verdi piramidi di avocado. Se locchio resta appagato dalla vista dei moderni negozi del centro e dalla sobria eleganza degli impiegati che sciamano lungo le isole pedonali di calle Compañía, Bandera, Ahumada e del Paseo Huérfanos, colme di lustrascarpe e di rotonde edicole (dove è possibile trovare qualche quotidiano italiano anche se vecchio di tre giorni), colpisce la grande quantità di cani randagi che dormono sotto le panchine e girano indisturbati fra lindifferenza generale.
Il tempo della luna di miele del governo della Bachelet - «Michelle», qui la chiamano - sembra terminato: già nellagosto del 2006, a pochi mesi dalla sua elezione, i pinguinos, gli studenti delle scuole medie di Santiago e di altri centri urbani, erano scesi in piazza chiedendo riforme e agevolazioni. Ne erano seguiti tafferugli subito esplosi in episodi di guerriglia urbana, scatenati da gruppi di estremisti infiltratisi nelle manifestazioni. Per riportare la calma, la Bachelet aveva costretto il ministro dellEducazione pubblica a rassegnare le dimissioni; poi era venuto lo sciopero dei funzionari pubblici e quindi le proteste dei minatori del giacimento di rame di Escondida. Il clima di incertezza e malessere era continuato. «E continua ancora - mi dice il tassista che mi accompagna allappuntamento con lo scrittore Jorge Edwards -. Oggi i poveri sono sempre più poveri, e i ricchi sempre più ricchi e arroganti».
La stampa del Paese ha commentato con giudizi abbastanza severi lesito delle votazioni indette da Chávez in Venezuela. Ne approfitto per chiedere subito a Jorge Edwards, Premio Cervantes di Letteratura 1999 e una delle personalità più note della cultura cilena, che cosa pensa del risultato, o meglio come definisce questa sconfitta che lestroso presidente, rivolgendosi agli oppositori, ha definito, con linguaggio colorito, «una victoria de mierda». «In realtà - ribatte Edwards - si tratta di un successo ancor più rilevante, come mi è stato riferito da amici intellettuali del Venezuela; un successo che forse raggiunge il 60 per cento dei voti e che Chávez cerca di nascondere con battutacce volgari. Ma ammettiamo pure che sia una vittoria sul filo del rasoio; vuol dire che i venezuelani si dividono in due schieramenti: metà a favore e metà contro la politica del loro presidente. Prevedo un duro scontro frontale che potrebbe anche condurre a una rivoluzione di popolo».
Mentre gli mostro il volume italiano di Valerio Castronovo, Piazze e caserme. I dilemmi dellAmerica Latina dal Novecento a oggi (Laterza, pagg. 414, euro 20), chiedo a Edwards come spiega il risorgente fenomeno del populismo ideologico di sinistra che attraversa molti Paesi ispanoamericani: il Venezuela guidato da Hugo Chávez, la Bolivia di Evo Morales - lindio di Cochabamba - ma anche, con qualche distinguo, il Brasile di Lula, acclamato dal popolo dei no global, e il Nicaragua di Daniel Ortega, leader del vecchio movimento sandinista, che hanno tutti nella Cuba di Castro il loro modello di riferimento. La risposta dello scrittore è precisa: «La spinta maggiore allaffermazione di questo e altri caudillos è dovuta allo stato latente di corruzione generale che impera in quei Paesi, soprattutto in Bolivia; ma in gran parte proviene dal sonno atavico che regola la vita della società latinoamericana. A noi piace cullarci nel sogno, concepire fughe in avanti, vivere grandi utopie che finiscono spesso in tragedia. Insomma dimentichiamo presto la lezione del passato per ricominciare tutto da capo, ripartire da zero: ecco spiegate le continue rivolte di popolo e le dittature di destra e sinistra. Come recita il titolo di questo libro italiano, passiamo dalle rivolte di piazza alle violenze di caserma, e delle due situazioni non so dire quale sia la migliore».
Jorge Edwards è autore di importanti romanzi che descrivono la società cilena, come Il sogno della storia, in cui si racconta la vita della sua famiglia insieme alla dittatura del generale Pinochet; ugualmente il libro Persona non gradita è la testimonianza rivelatrice e «incomoda» della sua esperienza nella Cuba di Castro; libro che innescò una grande polemica, continuata poi con il volume di memorie Adiós, Poeta, dedicato a Pablo Neruda, di cui Jorge è stato per ventanni amico e confidente. Gli chiedo del suo prossimo romanzo, La casa di Dostoevskij, che ricostruisce, attraverso la figura di un poeta immaginario, la vita degli esuli cileni in Francia. Domando se il protagonista del racconto è Neruda, ma Jorge sorride benevolo, cambiando discorso: «Di Neruda - informa - esce la nostra corrispondenza degli anni Cinquanta, da poco rintracciata. Prevedo nuove polemiche, il sale della vita». Prima di congedarmi, mi ricorda di visitare Nicanor Parra, lo straordinario autore del libro di versi Poemas & Antipoemas, che inaugura una scrittura antiaccademica a favore della quotidianità e della vita.
Parra, novantaquattrenne, vive a Cartagena, a un centinaio di chilometri da Santiago; la sua casa guarda dallalto la grande distesa delloceano. Suono alla porta e il poeta mi viene subito incontro: conserva intatto il suo fisico da sportivo, ha i candidi capelli lunghi, lampia camicia sbottonata e scarpe da ginnastica. Il dialogo mette subito in evidenza la sua stupefacente lucidità e memoria: conosce tutto, ricorda tutto, cita versi in inglese e francese, gesticola; sempre in piedi, mi indica la linea azzurra laggiù a destra, dove si scorge lombra di Isla Negra, la leggendaria casa di Neruda.
Anche a Parra chiedo che cosa pensa di questa nuova ondata di populismo che accomuna molti governanti in Sudamerica. La risposta è trasversale: egli preferisce vivere a Cartagena piuttosto che a Cuba, Bogotà, Caracas, ecc. Poi imita teatralmente la posa di Chávez, ripetendo la frase del re Juan Carlos: «Perché non stai zitto?». Aggiunge che ha dedicato ai due caudillos del momento alcuni versi, naturalmente antipoetici, che declama ad alta voce: «Regalo una bussola al compagno Morales perché,/ prigioniero in terra, possa scoprire la via verso il mare.// E il manuale del Galateo allegolatrico Chávez/ perché impari le buone maniere».
Prima di partire, scorgo su un tavolo un album di canzoni di Violeta Parra, la sorella morta suicida, assai legata al poeta. Nella casa, sulla terrazza che guarda allorizzonte, tutto è luce, musica e colori, poesia e antipoesia. Mentre sollevo la macchina fotografica per unimmagine, un ricordo del grande vegliardo, eternamente giovane: «No - mi dice -, non farlo perché, come credono gli indios mapuche, con la foto mi rubi lanima».
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