Quell’armata Brancaleone che combatte soltanto di notte

ZwatinahLa battaglia da qui è un miraggio di vento, sabbia e attesa. I ribelli sono un picnic da fine settimana tra mitragliatrici puntate al cielo e combattenti sbracati tra le dune. La pennellata d’asfalto è un’autostrada per la guerra. Ma pochi pagano il pedaggio. «Fermi non si passa», strilla l’ex poliziotto Abdul Hamid. Il suo pickup è arroccato all’estremità occidentale della statale per Ajbadia, ultima Stalingrado di questo stanco fronte orientale. Abdul non ha né gradi né divisa. Se gli chiedi del comandante ti squadra sperduto. «E a che serve? Non siamo un esercito, ci organizziamo da soli... mentre un gruppo tenta di sfondare, un altro si riposa. Da tre settimane combattiamo così». E i risultati si vedono. Dopo aver conquistato il terminale petrolifero di Ras Lanuf, 150 chilometri più avanti, Abdul e il resto di quest’armata Brancaleone si son ritrovati di nuovo a Bengasi. Per toglierli dagli impicci ci sono voluti i cacciabombardieri di zio Sarkozy arrivati lo scorso sabato a far polpette delle truppe di Gheddafi.
I 150 chilometri di rotabile alle spalle di Abdul sono un cimitero di carri, artiglieria semovente e batterie di Katyusha arrostiti assieme ai loro equipaggi. Ora il balzo finale spetterebbe agli arditi della rivoluzione. Le truppe lealiste li attendono al lato orientale e occidentale di Ajbadya, ma la spallata tarda ad arrivare. Il massimo dell’attività sono rabbiose raffiche di kalashnikov o contraerea sparate al cielo. Un modo per sentirsi vivi e un segno dell’improvvisazione che regna sovrana. Non a caso tra la truppa di Zwatinah da oggi circola un volantino del Comitato Rivoluzionario del 17 Marzo che implora di «non sprecare munizioni senza motivo». Un armata diretta a volantini ha poche prospettive, ma guai a farglielo capire. «Amico pensi veramente che non ci proviamo - urla Nasser Idriss, 34 anni squadrandomi da un paio d’occhiaie buie come la sua ultima notte –. È un inferno, la sera ci spingiamo in città o ai lati dei loro carri armati.... finché non ci vedono va tutto bene, ma di giorno ci bersagliano con le katyusha e cecchini nascosti sui tetti. Senza carri armati, senza lanciarazzi e senza i vostri aerei non possiamo farcela».
Già, gli aerei. Mentre Nasser strilla i francesi fanno piazza pulita di un vecchio bunker di Gheddafi nel cuore di Ajabadya, ma l’intervento non è certo risolutivo. Del resto finché i governativi si fanno scudo con i civili per l’aviazione alleata è praticamente impossibile colpirli. Senza munizioni, senza cibo e senza contatti coi comandi anche la loro sopravvivenza è però questione di giorni. E così tra l’inedia di Zwaitynah e la disperazione di Ajbatya corre un silenzioso flusso di trattative. La prima ammissione ufficiale arriva da Mohammad Omar Bar, un ex colonnello dell’aviazione diventato il portavoce militare degli insorti. «Non siamo come Gheddafi – spiega -, se ci chiedono di arrendersi accettiamo la trattativa». Una trattativa che fatta eccezione per Parigi e quanti scommettono sui ribelli di Cirenaica soddisfa molte cancellerie della coalizione alleata.

Tra Tripoli e qui ci sono oltre 800 chilometri e quest’armata Brancaleone di questo passo non andrà molto lontano. Dunque meglio temporeggiare, risparmiar le bombe e attendere che qualche unità ribelle più vicina alla capitale faccia il lavoro sporco al posto loro.

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